La cosa più difficile che devo affrontare ogni giorno, nel mio lavoro, è la
rigidità. Le persone sono rigide. Siamo rigidi. Rigidità che si declina in
mancanza di fantasia, carenza di flessibilità, ipermetodologia applicata in
modo impersonale e aprioristico. In parole povere: la morte
dell’educazione creativa.
Dicono che il mondo stia cambiando. Dicono che le imprese abbiano sempre
più bisogno di persone flessibili, capaci di adattarsi, dinamiche e creative.
Dicono che le grandi imprese cerchino i propri dipendenti e i propri dirigenti
dentro alle scuole d’arte. Non serve più il personale standardizzato e
pre-costruito. Non dobbiamo più sfornare giovani con picchi di conoscenze in
un'unica materia ma ricchi di esperienze diverse, capaci di pensiero critico,
adatti alla conoscenza del mondo. Persone capaci di essere persone in senso
globale.
Eppure, nonostante questa nuova e futuristica richiesta da parte del mondo,
noi non riusciamo a lasciar da parte la rigidità dei sistemi e a introdurre la
variabile “creatività”. Eppure mi capita di vedere, mio malgrado, molte persone
del mondo educativo trovarsi di fronte alla fantasia e alle alternative e
venire sopraffatti dal terrore che tutto possa sfuggirgli di mano, che esca
fuori dal loro controllo e, di conseguenza, comprimere questa variabilità, schiacciarla
dentro ai propri schemi, chiuderla in una scatola, anzi, in un registro,
perché, PRIMA, ci sono i programmi da rispettare, le pagine da finire, le
performance da programmare. Tutto corre e tutto va, ma cosa resta ai nostri
ragazzi? Cosa lasciamo loro in dote? Cosa vogliamo lasciare?
Io me lo chiedo spesso e in molti, come me, cominciano a chiederselo oggi.
Tanti vogliono fare qualcosa di diverso e ci provano. Ma fra questi, purtroppo,
ancora in troppi sono quelli che cercano la risposta spostando il proprio focus
da una rigidità all’altra affidandosi a nuove, fiammanti (ma anche antiche e
rinomate) “metodologie”.
E di questo proprio non riesco a farmene una ragione. Perché le
figure educative hanno sempre e spasmodicamente bisogno di metodi da
applicare? Metodi per ogni cosa. Metodi preferibilmente
riconosciuti e attestati da corsi costosissimi, con timbri famosissimi e con
nomi altisonanti. Un metodo per le materie scientifiche, uno per quelle
umanistiche, uno per le persone così e l’altro per le persone cosà, e infine,
ovviamente, un metodo anche per essere creativi. Sì, perchè si deve essere
creativi maaaa…solo con la modalità prevista dal metodo. E allora ci iscriviamo all’ultimo
aggiornamento di grido, andiamo ad imparare le tecniche, compriamo materiali e
kit fatti da esperti con materiale che proviene dalla luna (dati i prezzi) e
poi? Poi, calati nella meravigliosa variabilità individuale del quotidiano la
perdiamo di vista cercando in tutti i modi di far rientrare ogni individuo,
ogni mente, ogni vita, ogni esperienza nella stessa struttura “metodica” che
abbiamo appena imparato, perché è quella all’avanguardia, è quella
scientificamente e dermatologicamente testata. Tutti dentro a un metodo e tutti
giù per terra
Sì, perché alla fine, professionali e preparati, ci ritroviamo a fare la cosa più grave che un educatore possa fare, dimenticarsi che ogni essere umano è unico e irripetibile, che ogni evento educativo è hic et nunc (qui ed ora), che non devono essere le persone ad adattarsi al metodo ma il metodo alle persone. E invece lasciamo che il nostro bisogno di scientificità offuschi il nostro senso pedagogico e ci dimentichiamo l’incredibile capacità umana della flessibilità. Ci scordiamo di essere persone dotate di capacità stupefacenti come l’ascolto, la com-prensione, la com-passione.
Sì, perché alla fine, professionali e preparati, ci ritroviamo a fare la cosa più grave che un educatore possa fare, dimenticarsi che ogni essere umano è unico e irripetibile, che ogni evento educativo è hic et nunc (qui ed ora), che non devono essere le persone ad adattarsi al metodo ma il metodo alle persone. E invece lasciamo che il nostro bisogno di scientificità offuschi il nostro senso pedagogico e ci dimentichiamo l’incredibile capacità umana della flessibilità. Ci scordiamo di essere persone dotate di capacità stupefacenti come l’ascolto, la com-prensione, la com-passione.
Così, ci avviamo ogni mattina, con la nostra valigia piena di strategie e
modulistiche, la apriamo e la mettiamo sulla cattedra, sulla scrivania, in
cucina e con tutto quel ben di Dio prepariamo attività, lezioni, esperienze ben
strutturate e impalcate e andiamo avanti dritti verso la meta. Facciamo il
nostro numero di incontri prefissati, facendo rigorosamente mettere le domande
e le curiosità dei bambini scritte su un post-it o appese su un cartellone “per
dopo” (perché nel metodo non è previsto che si perda tempo con le riflessioni
uscendo dal tema), raccogliamo dati e chiudiamo pacchetti con relazioni
assolutamente metodologiche. Iniziamo e finiamo, iniziamo e finiamo e andiamo
avanti così, ben incanalati dentro rassicuranti passerelle addestranti che non
hanno niente di educativo e creativo. Siamo forti e sicuri, noi applichiamo il
metodo alla lettera, ci siamo formati per farlo, abbiamo il titolo, perciò non
è possibile che non funzioni. Siamo ligi al dovere e agli apprendimenti. Non ci
sfugge niente. Eppure qualcosa continua a sfuggirci. A questa
società qualcosa sfugge continuamente. Ci sfuggono ragazzi dalle mani, ci
sfuggono ragazzi dalle scuole, ci sfuggono pensieri e punti di vista, ci
sfuggono confronti di idee e visioni del domani. Ci sfuggono le persone. E
dentro a questo turbinio ci sfugge il futuro.
Allora, direte voi, è sbagliato il metodo?
Io non credo. Non credo che siano sbagliati i metodi a priori ma il modo in
cui noi li intendiamo, il modo in cui tentiamo a tutti i costi di applicarli
così come ce li hanno insegnati, perché ci rassicurano, perché danno alla
pedagogia e all’educazione il taglio scientifico che altrimenti non sentiremmo
di avere. E’ sbagliato il fatto che non riusciamo a credere che qualcuno con
quei metodi possa arrivare da tutt’altra parte rispetto a quello che noi ci
aspettavamo. E’ sbagliato l’immobilismo. E’ sbagliato che insieme al metodo non
venga insegnato agli educatori, ai formatori, agli insegnanti, ad accogliere e
gestire gli imprevisti, la variabile umana, la variabile creativa, prendendola
e inventandosi qualcosa di nuovo. Un’evoluzione delle tecniche, una struttura
diversa che ancora continuerà ad evolversi. I grandi pedagogisti che hanno
partorito i grandi metodi, oggi, secondo me, avrebbero molto da ridire sulla
rigidità e il fissismo. Sono stati capaci di innovare guardando oltre,
guardando al futuro, superando barriere e accogliendo la creatività, e oggi,
quell’innovazione non ha seguito il passo dei tempi. La prendiamo e la
applichiamo così, fino alla prossima innovazione che farà qualcun altro al
posto nostro perché noi non abbiamo avuto il coraggio di farla ogni giorno. E
infine, la cosa più triste che riusciamo a fare, è l’applicazione cieca, senza
metterci la nostra personalità e fantasia educativa. Senza che una traccia di
noi rimanga.
Le strutture ci vengono in aiuto, ci offrono strumenti e tecniche valide,
ci danno una mano ma, quando ci accorgiamo che stanno diventando vincoli
anziché risorse, allora è arrivato il momento di rielaborarle, modificarle,
superarle e finanche di abbandonarle per passare oltre. Padroneggiare una
tecnica non significa essere buoni educatori. Nemmeno padroneggiarne due, o
tre. Essere buoni educatori significa conoscere approfonditamente le
tecniche per poterle manipolare, integrare, applicare in modo parziale e
personale scegliendo cosa sì e cosa no e facendolo solo ed esclusivamente in
funzione dell’individualità di chi abbiamo di fronte, dell’unicità del
nostro gruppo classe, della personalità dei nostri educandi.
Facciamo un passo nel futuro, andiamo oltre e
sforziamoci di diventare educatori creativi.
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