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sabato 10 dicembre 2016

L'educazione creativa

La cosa più difficile che devo affrontare ogni giorno, nel mio lavoro, è la rigidità. Le persone sono rigide. Siamo rigidi. Rigidità che si declina in mancanza di fantasia, carenza di flessibilità, ipermetodologia applicata in modo impersonale e aprioristico. In parole povere: la morte dell’educazione creativa.
Dicono che il mondo stia cambiando. Dicono che le imprese abbiano sempre più bisogno di persone flessibili, capaci di adattarsi, dinamiche e creative. Dicono che le grandi imprese cerchino i propri dipendenti e i propri dirigenti dentro alle scuole d’arte. Non serve più il personale standardizzato e pre-costruito. Non dobbiamo più sfornare giovani con picchi di conoscenze in un'unica materia ma ricchi di esperienze diverse, capaci di pensiero critico, adatti alla conoscenza del mondo. Persone capaci di essere persone in senso globale.
Eppure, nonostante questa nuova e futuristica richiesta da parte del mondo, noi non riusciamo a lasciar da parte la rigidità dei sistemi e a introdurre la variabile “creatività”. Eppure mi capita di vedere, mio malgrado, molte persone del mondo educativo trovarsi di fronte alla fantasia e alle alternative e venire sopraffatti dal terrore che tutto possa sfuggirgli di mano, che esca fuori dal loro controllo e, di conseguenza, comprimere questa variabilità, schiacciarla dentro ai propri schemi, chiuderla in una scatola, anzi, in un registro, perché, PRIMA, ci sono i programmi da rispettare, le pagine da finire, le performance da programmare. Tutto corre e tutto va, ma cosa resta ai nostri ragazzi? Cosa lasciamo loro in dote? Cosa vogliamo lasciare?
Io me lo chiedo spesso e in molti, come me, cominciano a chiederselo oggi. Tanti vogliono fare qualcosa di diverso e ci provano. Ma fra questi, purtroppo, ancora in troppi sono quelli che cercano la risposta spostando il proprio focus da una rigidità all’altra affidandosi a nuove, fiammanti (ma anche antiche e rinomate) “metodologie”. 
E di questo proprio non riesco a farmene una ragione. Perché le figure educative hanno sempre e spasmodicamente bisogno di  metodi da applicare?  Metodi per ogni cosa. Metodi preferibilmente riconosciuti e attestati da corsi costosissimi, con timbri famosissimi e con nomi altisonanti. Un metodo per le materie scientifiche, uno per quelle umanistiche, uno per le persone così e l’altro per le persone cosà, e infine, ovviamente, un metodo anche per essere creativi. Sì, perchè si deve essere creativi maaaa…solo con la modalità prevista dal metodo. allora ci iscriviamo all’ultimo aggiornamento di grido, andiamo ad imparare le tecniche, compriamo materiali e kit fatti da esperti con materiale che proviene dalla luna (dati i prezzi) e poi? Poi, calati nella meravigliosa variabilità individuale del quotidiano la perdiamo di vista cercando in tutti i modi di far rientrare ogni individuo, ogni mente, ogni vita, ogni esperienza nella stessa struttura “metodica” che abbiamo appena imparato, perché è quella all’avanguardia, è quella scientificamente e dermatologicamente testata. Tutti dentro a un metodo e tutti giù per terra
Sì, perché alla fine, professionali e preparati, ci ritroviamo a fare la cosa più grave che un educatore possa fare, dimenticarsi che ogni essere umano è unico e irripetibile, che ogni evento educativo è hic et nunc (qui ed ora), che non devono essere le persone ad adattarsi al metodo ma il metodo alle persone. E invece lasciamo che il nostro bisogno di scientificità offuschi il nostro senso pedagogico e ci dimentichiamo l’incredibile capacità umana della flessibilità. Ci scordiamo di essere persone dotate di capacità stupefacenti come l’ascolto, la com-prensione, la com-passione.
Così, ci avviamo ogni mattina, con la nostra valigia piena di strategie e modulistiche, la apriamo e la mettiamo sulla cattedra, sulla scrivania, in cucina e con tutto quel ben di Dio prepariamo attività, lezioni, esperienze ben strutturate e impalcate e andiamo avanti dritti verso la meta. Facciamo il nostro numero di incontri prefissati, facendo rigorosamente mettere le domande e le curiosità dei bambini scritte su un post-it o appese su un cartellone “per dopo” (perché nel metodo non è previsto che si perda tempo con le riflessioni uscendo dal tema), raccogliamo dati e chiudiamo pacchetti con relazioni assolutamente metodologiche. Iniziamo e finiamo, iniziamo e finiamo e andiamo avanti così, ben incanalati dentro rassicuranti passerelle addestranti che non hanno niente di educativo e creativo. Siamo forti e sicuri, noi applichiamo il metodo alla lettera, ci siamo formati per farlo, abbiamo il titolo, perciò non è possibile che non funzioni. Siamo ligi al dovere e agli apprendimenti. Non ci sfugge niente. Eppure qualcosa continua a sfuggirci. A questa società qualcosa sfugge continuamente. Ci sfuggono ragazzi dalle mani, ci sfuggono ragazzi dalle scuole, ci sfuggono pensieri e punti di vista, ci sfuggono confronti di idee e visioni del domani. Ci sfuggono le persone. E dentro a questo turbinio ci sfugge il futuro. 
Allora, direte voi, è sbagliato il metodo? 
Io non credo. Non credo che siano sbagliati i metodi a priori ma il modo in cui noi li intendiamo, il modo in cui tentiamo a tutti i costi di applicarli così come ce li hanno insegnati, perché ci rassicurano, perché danno alla pedagogia e all’educazione il taglio scientifico che altrimenti non sentiremmo di avere. E’ sbagliato il fatto che non riusciamo a credere che qualcuno con quei metodi possa arrivare da tutt’altra parte rispetto a quello che noi ci aspettavamo. E’ sbagliato l’immobilismo. E’ sbagliato che insieme al metodo non venga insegnato agli educatori, ai formatori, agli insegnanti, ad accogliere e gestire gli imprevisti, la variabile umana, la variabile creativa, prendendola e inventandosi qualcosa di nuovo. Un’evoluzione delle tecniche, una struttura diversa che ancora continuerà ad evolversi. I grandi pedagogisti che hanno partorito i grandi metodi, oggi, secondo me, avrebbero molto da ridire sulla rigidità e il fissismo. Sono stati capaci di innovare guardando oltre, guardando al futuro, superando barriere e accogliendo la creatività, e oggi, quell’innovazione non ha seguito il passo dei tempi. La prendiamo e la applichiamo così, fino alla prossima innovazione che farà qualcun altro al posto nostro perché noi non abbiamo avuto il coraggio di farla ogni giorno. E infine, la cosa più triste che riusciamo a fare, è l’applicazione cieca, senza metterci la nostra personalità e fantasia educativa. Senza che una traccia di noi rimanga.
Le strutture ci vengono in aiuto, ci offrono strumenti e tecniche valide, ci danno una mano ma, quando ci accorgiamo che stanno diventando vincoli anziché risorse, allora è arrivato il momento di rielaborarle, modificarle, superarle e finanche di abbandonarle per passare oltre. Padroneggiare una tecnica non significa essere buoni educatori. Nemmeno padroneggiarne due, o tre. Essere buoni educatori significa conoscere approfonditamente le tecniche per poterle manipolare, integrare, applicare in modo parziale e personale scegliendo cosa sì e cosa no e facendolo solo ed esclusivamente in funzione dell’individualità di chi abbiamo di fronte, dell’unicità del nostro gruppo classe, della personalità dei nostri educandi.

Facciamo un passo nel futuro, andiamo oltre e sforziamoci di diventare educatori creativi. 

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