Stavamo parlando di una ragazzina che a lui piace molto e mi stava raccontando tutte le sue fatiche di preadolescente alle prese con i primi amori. Parlava e raccontava e poi ascoltava incuriosito e anche un po’ divertito le mie parole. Sorridendo lo guardo e dico “dai retta a me che sono vecchia”. Lui si mette a ridere e mi dice “ma no, non sei vecchia, hai solo il pentagramma sulla fronte”. Così insieme scoppiamo in una sonora risata coinvolgendo una mia collega che ci guarda e si rivolge a F. dicendogli “è bello avere un’amica con cui parlare vero?”. Lui si fa serio e risponde “ma lei non è la mia amica, non mi racconta i suoi segreti e non piange. Lei è un’adulta! Però mi piace parlare con lei perché mi ascolta e mi consiglia”. L’ho guardato e fiera di lui ho pensato “Quanta saggezza in queste parole”.
Perché vi ho raccontato questo aneddoto? Perché oggi vorrei
sfatare il secondo mito legato al dialogo coi figli: dialogare coi figli non significa
essere i loro migliori amici. Ecco, l’ho detto! E non odiatemi per
averlo detto! Sono estremamente convinta che questo sia un altro dei miti
moderni della relazione genitori-figli. Sembra che in molti credano che dialogare
coi figli è possibile solo se ci si comporta come loro, solo se si usa lo stesso
linguaggio, solo se si fanno le medesime esperienze. Dialogare non è
necessariamente questo. In verità può esistere e deve esistere un tipo di
dialogo intergenerazionale sano e costruttivo. Un dialogo che con il tempo
cresce, muta, si modifica. Dialogare con un figlio piccolo non è come dialogare
con un figlio adolescente, dialogare con una figlia non è come dialogare con un
figlio, dialogare a trent’anni non è come dialogare a cinquanta. Ma una cosa non
cambia. Noi siamo i genitori e loro sono i figli. E non intendo dire che questa
sia una scala gerarchica dove qualcuno è più importante di qualcun altro. Il
valore umano di ognuno di noi è identico, sia che si abbiano due anni sia che
se ne abbiano trenta, sia che siamo maschi sia che siamo femmine e via di seguito per tutte le variabili possibili. Sono le
esperienze umane ad essere diverse. La strada percorsa, la vita trascorsa, gli
apprendimenti fatti. Essere genitore è mettere a disposizione dei propri figli tutto
questo bagaglio di esperienze. E’ introdurre cambiamenti attraverso la
condivisione. E quale miglior strumento se non il dialogo? Ma le parole che si
usano, le frasi che si dicono, hanno un’importanza fondamentale. Nelle nostre
parole c’è esperienza che si trasmette e che si fissa nella mente dei nostri
figli. Nel dialogo quotidiano c’è vita che passa di padre in figlio. Ma la
relazione che instauriamo con loro rimarrà necessariamente asimmetrica. Il
nostro ruolo di guida, di aiuto, di ascolto, di contenimento, di accoglienza,
di educazione, sarà sempre un ruolo da educatore ad educando fino a quando i
nostri figli non saranno in grado di andare nel mondo da soli. E in tutto questo
tempo, in questa relazione, sarà importante ricordare sempre che la fiducia si
costruisce dando fiducia, che l’ascolto si educa dando ascolto. Ma noi
rimarremo sempre i genitori dei nostri figli. Io rimarrò la donna che è
investita della responsabilità di guidarli e sostenerli e non quella che deve
essere sostenuta da loro. Nella relazione fra migliori amici l’uno sostiene
l’altro in modo biunivoco perché entrambi si è in grado di sostenere la
sofferenza dell’altro, la gioia dell’altro, l’apatia dell’altro a ritmi
alterni. Nella relazione genitori-figli, un figlio che sta crescendo non ha le
strutture emotive adeguate per accogliere i nostri “segreti”. Certamente un figlio può
comprendere che siamo umani, che abbiamo debolezze e fatiche, che commettiamo
errori. Questo può comprenderlo. E non solo! Abbiamo il dovere di spiegarglielo
perché prima o poi commetteremo errori e lui se ne accorgerà e se ci avrà
mitizzati allora perderà la fiducia. Ma in quanto figlio (soprattutto se
piccolo) non può e non deve sostenerci nei nostri momenti di crisi, non può e
non deve farsi carico delle nostre paure terrorizzanti, non può e non deve asciugare
le nostre lacrime di dolore. Questo ruolo spetta a qualcun altro e soprattutto
spetta a noi nei suoi confronti.
Poi, un giorno, quando avremo insegnato loro a essere uomini
e donne completi, emotivamente stabili, capaci di accogliere l’altro, ci
accorgeremo che saranno in grado di fare tutto questo coi loro stessi figli e
forse, allora, anche con i loro anziani genitori. Ma fino ad allora facciamoci
carico delle nostre responsabilità e smettiamola di fare gli eterni Peter Pan emotivi.
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