Sono le 20.30 di un lunedì sera e
la giornata è stata impegnativa per tutti, ma forse vale la pena esserci.
Mi siedo un attimo ed osservo le
persone sedute davanti a me. Mi guardano, poi guardano la mia collega, poi me, la
slide di inizio corso e poi di nuovo me.
E io osservo loro. E mentre sorrido penso che è come vedersi allo
specchio. Siamo riflessi. Io qui e loro
lì, ma solo poche ore fa io ero lì e i docenti di mio figlio qui a spiegarmi il
suo andamento scolastico. E prima ancora io ero di nuovo qui, come educatrice,
e i bimbi della scuola dell’infanzia lì. Molteplici punti di vista, diverse
angolature da cui vivere e osservare le relazioni umane tra figure diverse, tra
genitore e figlio, tra alunno e docente, tra formatore e genitore. E allora
scorre la mia riflessione. Tutto questo essere o agire deve pur avere un senso,
penso.
Punti di vista riflessi che
cercano un senso nel reciproco agire, che danno un senso e che formano senso
legando parole a significati e significati a gesti che tutti compiamo nell’arco
delle nostre 24 ore, più o meno consapevolmente. Cosa conta allora se non il rendersi
un pochino più consapevoli di queste dinamiche relazionali, se non comprendere
ciò che differenzia l’agire dall’agire educativo, se non rendersi più
responsabili delle proprie azioni come espressioni del proprio pensiero.
Riflettere. Pensare. Scegliere. Agire.
Forse è già questo l’intento
della formazione? Sì, perché penso che le persone che decidono di uscire di
casa per andare a seguire una serata formativa per genitori si sono già poste
delle domande. Hanno sicuramente letto, argomentato e hanno voglia di cercare
risorse utili alla loro causa. Quindi
hanno un’idea nella testa o stanno cercando un’idea. Stanno cercando di fare
chiarezza su dove vogliono andare con i propri figli. E allora forse sono qui
per la voglia di rimescolare le carte, di guardare con occhi diversi o solo per
cercare conferme.
E io, dal canto mio, sono qui per
portare la mia visione pedagogica, i miei anni di lavoro sul campo in contesti
diversi, la pluralità di sguardi educativi e di situazioni nelle quali si sono
cercate e trovate possibili risposte e nelle quali mi sono trovata a osservare
le relazioni. Sono qui per condividere esperienze, per accendere riflessioni,
per aprire porte. Sapete? Non sono mai riuscita a leggere i testi in cui si danno
risposte certe e soluzioni immediate e nemmeno mi interessano molto le mode
educative, che reputo cicliche come quelle per l’abbigliamento, ma sono sicura
che se scrivessi uno dei tanti nomi nobili della pedagogia italiana, Maria Montessori,
e se citassi una frase tipo “l’adulto deve aiutare il bambino a fare da sè
tutto quanto gli è possibile fare”, tutti direbbero certamente “Vero!”. Poi
però, a conti fatti, nella pratica educativa quotidiana, molti di questi “vero!”
si trovano ad allacciare le scarpe ai propri figli, a tagliare loro la carne, a
raccogliere e riordinare i loro giochi,
a colorare i loro compiti, ad arrabattarsi fra i compiti non scritti e le
verifiche non segnate, e potrei continuare oltre. E allora tutta la teoria
pedagogico-educativa sfuma dinnanzi alle sfide della quotidianità. E io porto
queste letture. E porto i miei perché. Perché? Forse perché è più facile. Forse
perché è più veloce. Forse perché non ci si pone obiettivi. Forse
perché non si vuole realmente esserci! Sì, forse è proprio questione di voler
esserci!
La scorsa settimana, al termine
di una serata di formazione per genitori, una mamma, parlando di scuola e di
relazione educativa bambini-insegnanti, mi ha detto: bisogna voler esserci! E
guarda caso, ieri sera a cena con un’amica che insegna filosofia al liceo, tra
le altre frasi dette è spuntata proprio questa “Bisogna voler esserci!”.
Sì, ma che vuol dire?
Vuol dire che i bambini e i ragazzi
hanno lo scanner incorporato. Hanno la capacità di mapparci dentro come nessun
apparecchio super futurista è in grado di fare oggi. Significa che loro lo
sanno se noi adulti “vogliamo esserci”. Significa che un genitore deve voler
scegliere e deve voler fare la differenza nella relazione educativa col proprio
figlio. Significa che quando vuoi esserci entri in una classe e fai la
differenza, come educatore!
E’ questo! E’ la vicinanza
educativa. Quella che spaventa perché non è autorità né amicizia ma è quella
che rende molto sottili seppur non assenti i confini tra docenza e alunni,
quella che accorcia le distanze di genere e di generazione, quella che permette
di traghettare i bambini e i ragazzi ovunque, nel domani, nel futuro, nelle
sfide impegnative e faticose, quella che insegna la vita al di là dei
contenuti. Ma quella roba qui dove la si compra? Non si compra e non si vende.
Quella roba qui si è e basta!
Essere educatore dentro all’essere
genitore significa avere quella capacità empatica di sintonizzarsi sulle corde
altrui per scovare le possibilità con cui costruire una relazione
com-passionevole. Significa ascoltare e non sentire. Significa chiedere e
cercar risposte. Significa vedere oltre. Voler esserci significa trasmettere ai
bambini e ai ragazzi la propria passione per ciò che pensiamo, facciamo e
infine diciamo. Agire da educatore significa credere fermamente che il nostro
essere sia un punto fermo per loro. Agire nelle proprie idee, saperle esprimere
e sostenere anche sbagliando, cadere e rialzarsi, chiedere scusa, chiedere
aiuto, ammettere il nostro essere “finiti” ammettendo di non conoscere e
cercando magari di scoprire insieme. Questo è ciò che i figli vogliono da noi. Vogliono
che ci siamo. Che siamo lì con loro.
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