Questo blog è scritto a quattro mani. Quando leggerete troverete l'essenza di noi. Leggerete la nostra esperienza di vita, come mamme e come educatrici. Questo blog è la nostra visione pedagogica. Questo blog siamo noi! Il nostro motto è: L'ESPERIENZA DEGLI EDUCATORI AL SERVIZIO DEI GENITORI! Aiutateci a rendere speciale questo blog con le vostre condivisioni e i vostri commenti...

domenica 24 aprile 2016

LIBERTA'

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Domani sarà il 25 Aprile, festa della Liberazione. La libertà. Cos’è per me la libertà? Essere liberi significa forse poter fare tutto ciò che si vuole quando si vuole? Oh no. Non è questo. Io non posso fare ciò che voglio nel momento in cui lo voglio, sempre. Ma posso scegliere di NON fare ciò che ritengo sbagliato. Posso scegliere di dire NO. Questo posso farlo. Questa è la democrazia. La democrazia ci permette di dire NO, di dire basta. La democrazia ci permette di cambiare. Ho discusso di questo, molte volte, con  molte persone. Ho discusso del fatto che vada bene lamentarsi. Io comprendo le lamentele e spesso le condivido. Capisco cosa significa arrabbiarsi perché la corruzione cresce, perché i privilegi non vengono cancellati, perché gli interessi personali vengono sempre prima di quelli pubblici. Arrabbiarsi è un diritto democratico. Siamo liberi di arrabbiarci. Liberi di lamentarci. Liberi di alzarci e scrivere un post acido su facebook o un post ironico o uno sarcastico. Possiamo condividere video, foto, aforismi e immagini e nessuno ci torturerà per questo. Nessuno ci porterà via dalle nostre famiglie e farà sparire il nostro cadavere. Noi siamo una democrazia. Noi siamo liberi. Dalla democrazia non si scappa. Dalla democrazia si parte con una valigia piena di vestiti e sogni, con un passaporto e un biglietto aereo. Non si scappa da clandestini con quattro stracci e i figli in braccio. Non ci si ritrova nella terra di nessuno dove nessuno ti vuole. Se parti da un paese democratico e arrivi in un paese democratico, non perdi il diritto di stare in quel paese perché da un giorno all’altro non sei più considerato un rifugiato politico e allora perdi tutto e ti rimandano indietro. Se vieni da un paese democratico con un passaporto in mano, giri da uomo libero. In un paese democratico puoi scegliere di andare a votare a un referendum, puoi scegliere di votare sì o di votare no, e puoi perfino scegliere di non votare. Puoi arrabbiarti col presidente del consiglio e pubblicare una foto ridicola. Ma in un paese democratico non hai solo il diritto di arrabbiarti. Hai il dovere di cambiare le cose. Nel tuo piccolo. Nel tuo quotidiano. In un paese democratico puoi scegliere tu che cosa insegnare ai tuoi figli. Puoi decidere tu di ricordare loro che vivono in un paese democratico perché qualcun altro, prima di loro, è morto per questo. Puoi mostrare loro, con il tuo esempio, cosa è giusto e cosa è sbagliato. Puoi insegnare a denunciare, a indignarsi, a dire di no. Puoi insegnare a fare la raccolta differenziata, a puntare il dito contro chi sporca o deturpa l’ambiente. Puoi insegnare a leggere, a pensare, a farsi domande sul mondo. Puoi insegnare ai tuoi figli a fare del bene, a essere solidali, a ritagliarsi il proprio posto nel mondo ma non a discapito degli altri. Si soffre in democrazia? Certo che si soffre! C’è chi ha troppo e chi ha troppo poco. Che chi non ha nulla. C’è chi lotta per arrivare a fine mese. Ma a differenza dei paesi senza libertà, in democrazia possiamo insegnare ai nostri figli a tendere la mano, a dire no, a votare contro per mostrare il proprio gesto di solidarietà nei confronti di chi non ha più la forza di lottare per sé. Possiamo insegnare a far parte di associazioni, a dare una mano, a manifestare pacificamente ma in modo deciso. Possiamo insegnare a usare i mezzi di comunicazione per diffondere cultura e positività. Possiamo dire NO coi nostri gesti quotidiani. Possiamo combattere l’illegalità insegnando la legalità. Possiamo combattere l’egoismo insegnando l’altruismo. Possiamo combattere l’ignoranza insegnando la cultura…Possiamo farlo insieme, da uomini e donne liberi, per i nostri figli, per il loro e il nostro futuro, per avere domani una nuova classe dirigente responsabile ed etica, per non avere più così tante cose di cui lamentarci, per conservare, ancora una volta, la nostra LIBERTA’!

domenica 17 aprile 2016

Voler esserci!


Sono le 20.30 di un lunedì sera e la giornata è stata impegnativa per tutti, ma forse vale la pena esserci.
Mi siedo un attimo ed osservo le persone sedute davanti a me. Mi guardano, poi guardano la mia collega, poi me, la slide di inizio corso e poi di nuovo me.  E io osservo loro. E mentre sorrido penso che è come vedersi allo specchio. Siamo riflessi.  Io qui e loro lì, ma solo poche ore fa io ero lì e i docenti di mio figlio qui a spiegarmi il suo andamento scolastico. E prima ancora io ero di nuovo qui, come educatrice, e i bimbi della scuola dell’infanzia lì. Molteplici punti di vista, diverse angolature da cui vivere e osservare le relazioni umane tra figure diverse, tra genitore e figlio, tra alunno e docente, tra formatore e genitore. E allora scorre la mia riflessione. Tutto questo essere o agire deve pur avere un senso, penso.
Punti di vista riflessi che cercano un senso nel reciproco agire, che danno un senso e che formano senso legando parole a significati e significati a gesti che tutti compiamo nell’arco delle nostre 24 ore, più o meno consapevolmente. Cosa conta allora se non il rendersi un pochino più consapevoli di queste dinamiche relazionali, se non comprendere ciò che differenzia l’agire dall’agire educativo, se non rendersi più responsabili delle proprie azioni come espressioni del proprio pensiero. Riflettere. Pensare. Scegliere. Agire.
Forse è già questo l’intento della formazione? Sì, perché penso che le persone che decidono di uscire di casa per andare a seguire una serata formativa per genitori si sono già poste delle domande. Hanno sicuramente letto, argomentato e hanno voglia di cercare risorse utili alla loro causa.  Quindi hanno un’idea nella testa o stanno cercando un’idea. Stanno cercando di fare chiarezza su dove vogliono andare con i propri figli. E allora forse sono qui per la voglia di rimescolare le carte, di guardare con occhi diversi o solo per cercare conferme.
E io, dal canto mio, sono qui per portare la mia visione pedagogica, i miei anni di lavoro sul campo in contesti diversi, la pluralità di sguardi educativi e di situazioni nelle quali si sono cercate e trovate possibili risposte e nelle quali mi sono trovata a osservare le relazioni. Sono qui per condividere esperienze, per accendere riflessioni, per aprire porte. Sapete? Non sono mai riuscita a leggere i testi in cui si danno risposte certe e soluzioni immediate e nemmeno mi interessano molto le mode educative, che reputo cicliche come quelle per l’abbigliamento, ma sono sicura che se scrivessi uno dei tanti nomi nobili della pedagogia italiana, Maria Montessori, e se citassi una frase tipo “l’adulto deve aiutare il bambino a fare da sè tutto quanto gli è possibile fare”, tutti direbbero certamente “Vero!”. Poi però, a conti fatti, nella pratica educativa quotidiana, molti di questi “vero!” si trovano ad allacciare le scarpe ai propri figli, a tagliare loro la carne, a raccogliere e  riordinare i loro giochi, a colorare i loro compiti, ad arrabattarsi fra i compiti non scritti e le verifiche non segnate, e potrei continuare oltre. E allora tutta la teoria pedagogico-educativa sfuma dinnanzi alle sfide della quotidianità. E io porto queste letture. E porto i miei perché. Perché? Forse perché è più facile. Forse perché è più veloce. Forse perché non ci si pone obiettivi. Forse perché non si vuole realmente esserci! Sì, forse è proprio questione di voler esserci!
La scorsa settimana, al termine di una serata di formazione per genitori, una mamma, parlando di scuola e di relazione educativa bambini-insegnanti, mi ha detto: bisogna voler esserci! E guarda caso, ieri sera a cena con un’amica che insegna filosofia al liceo, tra le altre frasi dette è spuntata proprio questa “Bisogna voler esserci!”.
Sì, ma che vuol dire?
Vuol dire che i bambini e i ragazzi hanno lo scanner incorporato. Hanno la capacità di mapparci dentro come nessun apparecchio super futurista è in grado di fare oggi. Significa che loro lo sanno se noi adulti “vogliamo esserci”. Significa che un genitore deve voler scegliere e deve voler fare la differenza nella relazione educativa col proprio figlio. Significa che quando vuoi esserci entri in una classe e fai la differenza, come educatore!
E’ questo! E’ la vicinanza educativa. Quella che spaventa perché non è autorità né amicizia ma è quella che rende molto sottili seppur non assenti i confini tra docenza e alunni, quella che accorcia le distanze di genere e di generazione, quella che permette di traghettare i bambini e i ragazzi ovunque, nel domani, nel futuro, nelle sfide impegnative e faticose, quella che insegna la vita al di là dei contenuti. Ma quella roba qui dove la si compra? Non si compra e non si vende. Quella roba qui si è e basta!

Essere educatore dentro all’essere genitore significa avere quella capacità empatica di sintonizzarsi sulle corde altrui per scovare le possibilità con cui costruire una relazione com-passionevole. Significa ascoltare e non sentire. Significa chiedere e cercar risposte. Significa vedere oltre. Voler esserci significa trasmettere ai bambini e ai ragazzi la propria passione per ciò che pensiamo, facciamo e infine diciamo. Agire da educatore significa credere fermamente che il nostro essere sia un punto fermo per loro. Agire nelle proprie idee, saperle esprimere e sostenere anche sbagliando, cadere e rialzarsi, chiedere scusa, chiedere aiuto, ammettere il nostro essere “finiti” ammettendo di non conoscere e cercando magari di scoprire insieme. Questo è ciò che i figli vogliono da noi. Vogliono che ci siamo. Che siamo lì con loro.

giovedì 7 aprile 2016

Desider-i-AMO

Ho deciso di riservarmi un attimo tutto per me e mi sono seduta davanti al computer. Qualcuno potrebbe pensare “che tristezza!”. Dipende dai punti di vista. Dipende, come sempre, da ciò che si desidera e ciò che si può fare. C’è chi pensa che per rilassarsi abbia bisogno di due giorni in una spa, chi di una passeggiata nella natura, chi sogna con ardore un’ora di divano e film e chi vorrebbe correre libero e senza vincoli. Così potremmo continuare. Ecco, il punto è questo: desiderare qualche cosa, desiderare di poterla possedere. Noi siamo la società del desiderio! Senza questo la nostra economia non funzionerebbe affatto. Dobbiamo costantemente desiderare per consumare e mentre consumiamo desideriamo già qualcos’altro e mentre consumiamo e desideriamo altro ci dicono che possiamo averlo, ci dicono che il mondo è nelle nostre mani e che non dobbiamo più aspettare. Possiamo avere tutto, subito, a poco prezzo e prima degli altri. Wow! Sono proprio rimasta l’ultima povera illusa che crede ancora che esistano le stagioni, che crede ancora che servano nove mesi di gestazione per poter generare un bimbo, che crede ancora che ci sia un tempo per ogni cosa. Ma niente paura! Arrivo a scuola e mi accorgo che la realtà mi da ragione…. E allora eccoli! I piccoli figli di questo mondo ben strutturato, unico, veloce, acquistabile in ogni sua forma e surrogato, competitivo fino all’eccesso e fagocitante. “Mamma voglio! Mamma dammi! Mamma compramelo! Se faccio questo tu mi compri questo, me lo hai promesso altrimenti lo dico al papà, alla nonna”

Chiudo le orecchie, sorrido, saluto e vado ad indossare il mio camice. Lo indosso con orgoglio tutte le mattine. E’ un camice che non ha colore, non ha forma, non ha marca e non ha prezzo… Il mio camice è la mia professionalità. Scendo in classe e rivedo i miei piccoli e mentre li osservo penso che loro, si, proprio loro che oggi hanno 5 anni, saranno a breve il mio datore di lavoro, il sindaco, l’assessore alle politiche sociali, il manager di confindustria e via così. E pensando questo vedo il mio camice di lavoro risplendere di nuova energia perché penso che devo, oltre ogni possibilità, tornare a seminare quelle idee vecchie (scusate si usa vintage!), lente, comunitarie, eque che la mia mamma e alcuni dei docenti che nella vita ho avuto il privilegio di incontrare, mi hanno insegnato. Penso che tra il desiderio e la sua consumazione immediata vi siano molte e molte cose da imparare. Penso che per primi noi adulti abbiamo il dovere di capire cosa sia giustamente desiderabile, cosa i nostri bambini desiderino veramente o cosa noi desideriamo per loro, cosa desiderino veramente e cosa invece stiano camuffando cercando di possedere un prodotto. Credo nuovamente che dovremmo riflettere sul nostro agire per comprendere che dietro piccoli gesti si seminano grandi cose che possono essere trampolini verso una nuova generazione più sostenibile ma possono essere anche zavorre che perpetuano un consumismo puro, dedito al possesso di beni, servizi e persone. Ecco, ho desiderato avere del tempo per me, per riflettere su alcune dinamiche che osservo nel quotidiano, ho potuto godere di questo tempo e sedermi davanti al computer è servito a questo scopo. Mi reputo una persona molto fortunata, posso desiderare e possedere il mio desiderio, sono consapevole che nella nostra piccola Terra non sono molte le persone che possono fare altrettanto e anche per questo devo impegnarmi nel mio piccolo per rendere il mondo un pochino migliore. 

sabato 2 aprile 2016

DICONO CHE...


Questo vuole essere il racconto di un mondo in blu. Di una visione che da ombra diventa luce. Perché ci si può divertire. Perché si ha il diritto di farlo. Perché vedere oltre ci permettere di vedere e costruire anche quando tutti dicono che non si può. Anche quando ti fanno credere che non si possa. Ma tu lo sai che non è cosi e alla fine invece scopri che si può.
M. non parla. Lui è grande, ha sedici anni, ma non parla. Non ha mai parlato. Dicono che abbia una forma gravissima di autismo e questo ha compromesso le sue funzioni comunicative. Anche quelle psicomotorie e cognitive sono compromesse. Cammina in modo goffo e non riesce a tenere le posate per mangiare. Ha molte stereotipie. Si dondola per la maggior parte del tempo; emette dei suoni gutturali intermittenti e spesso, quasi sempre, lancia gli oggetti. Dicono che io sarò la sua educatrice. Quando conosco M. cerco di nascondere la mia preoccupazione alla sua mamma. La sua mamma mi racconta la sua storia, con un dolore lacerante negli occhi nascosto da un enorme sorriso accogliente. La sua mamma è una donna speciale e meravigliosa. E’ una donna competente, combattiva, coraggiosa. M. è il primo di quattro figli. Lei sorride sempre anche se so che, dentro, il suo cuore è spezzato. Mi racconta di aver provato tutte le forme di comunicazione aumentativa possibili ma lui non ha mai collaborato e allora lei alla fine ha deciso che andava bene così. Lei chiede a M. di fare delle cose e lui le fa. Gli chiede di andare in bagno perché la vasca è pronta e lui va, si siede e aspetta di immergersi nell’acqua calda. Magari nel frattempo, strada facendo, ha trovato un oggetto abbandonato sul tavolo, lo ha preso e lo ha lanciato. Lei lo rimprovera e lui fa qualcuno dei suoi versi gutturali. Magari ride. Io li osservo. La casa di M. è fatta su misura per lui. Non ci sono pericoli in giro. Non ci sono soprammobili che lui può lanciare o piccoli oggetti che può inghiottire (beh sì, lui a volte mette in bocca le cose, le mastica e le deglutisce). La mamma mi racconta e mi mostra la stanza per M. Un pavimento di linoleum azzurro morbido, un tappeto elastico per saltare, pupazzi o palle morbide da lanciare. Un posto tutto suo dove può stare in sicurezza. Anche da solo se la mamma ha da fare. E da fare in una casa con quattro figli c’è sempre. Io le sorrido e la ascolto mentre racconta di lui. Ma dentro di me io sono molto preoccupata. Cosa farò con M. per un intero anno scolastico? Ai miei occhi, adesso come adesso, mi sembra impossibile costruire un progetto educativo. Su cosa dovrei lavorare? Sulla comunicazione? Sull’educazione alimentare? Su cosa? Questi pensieri mi tormentano a pochi giorni dall’inizio della scuola. Mi è già capitato di lavorare con bambini colpiti da patologie molto gravi. Ma dicono che M. sia un caso complesso. Difficile. Dicono tante cose di lui. Dicono che lui non possa comprendere il linguaggio verbale nemmeno nelle sue forme semplici. Dicono che non acquisirà mai nessuna autonomia. Dicono di fare quello che posso. Io ascolto e molte delle cose che sento mi fanno un pò paura. Ma questo non lo dò a vedere. La paura non mi ha mai fermata e non  mi fermerà ora. Ascolto. Penso. Rifletto. Cerco soluzioni. E alla fine decido.
Poi la scuola inizia e io resto sola con M. E allora penso a quello che ho deciso. Ho deciso che proverò a fare tabula rasa di tutto quello che dicono. Proverò a vedere da sola. Proverò a capire, a vedere oltre se possibile. Ci proverò. D’altra parte abbiamo un lungo anno scolastico insieme da vivere. Osservo M. Lui a volte ride da solo. Ride di gusto. E io rido con lui. Altre volte piange e io non so perché. Non so se sta male. Non so se è triste. Non riesco a capirlo e lui non riesce a dirmelo. Però capisco che gli piace la carta, soprattutto quella dei giornali. Gli piace strapparla a coriandolini. Oppure a striscioline da impugnare come un mazzo di fiori da scuotere davanti alla faccia per poterci soffiare sopra. Gli piacciono gli abbracci e gli piace tirarmi i capelli. Lui vuole che io li tiri a lui. Piano piano. Questo lo fa ridere. Quando è in vena impugna i pastelli e fa dei cerchi su un foglio. Poi lancia il pastello. Lanciare le cose è uno dei suoi momenti migliori. Afferra, guarda e lancia. Occhiali da sole, bicchieri di plastica, pacchetti di fazzoletti. Lanciare e strappare. Lanciare e strappare. Mani. Mani e piedi. Mani, piedi e corpo. Luce…ecco quello su cui lavorerò. Ecco come si intitolerà il mio progetto educativo di quest’anno “Dalle mie mani….al mio corpo”. Un percorso sensoriale da toccare, esplorare, lanciare. Un percorso dal solido al liquido. Vaschette piene di ceci, lenticchie, farina, farina bagnata, tempera, acqua…lasceremo la nostra impronta. Faremo un sacco di fotografie. E poi ricostruiremo il nostro percorso insieme.
Come piace a M. mettere le mani nelle cose! A volte ha un po’ paura. Ci sediamo sul tappeto blu e mettiamo la bacinella fra noi. Gli chiedo di darmi la mano e lui me la dà. La metto delicatamente fra i ceci e lui la ritrae subito. Ha paura. “No, stai tranquillo, è tutto apposto! Guarda!”  e gli mostro una manciata di ceci che poi faccio cadere dall’alto. Fanno rumore. Lui guarda con la coda dell’occhio, mentre si dondola e lancia qualche verso. Lo rifaccio. Allora M. allunga la mano e me la porge e fa un verso. Mi sta dicendo di metterla nei ceci. Io ne prendo un po’ e li faccio cadere sulla sua mano. Sorride. Poi fa di nuovo il verso e allunga la mano. La prendo e la metto nella vaschetta. Il nostro percorso ha inizio. Un percorso fatto di cose da toccare. Di grandi fogli appesi alle pareti da dipingere con le mani, a grandi cerchi. E di altri da mettere a terra per camminarci sopra coi piedi impiastricciati di colore blu. Una strada da percorrere insieme. Un percorso fatto di farina da lanciare. Di carta colorata da strappare….”Oh mamma, abbiamo fatto un disastro…” rido e mi guardo in giro. Adesso M. sa gettare la carta appallottolata nel cestino. Mi aiuta a riordinare. “Per favore M., buttala nel cestino”. Si alza, cammina col suo modo goffo verso il cestino e la butta. A volte ci prova ancora a lanciare il cestino e io faccio la faccia arrabbiata ma lui è già andato a sedersi e a strappare altra carta. Abbiamo fatto un grande lavoro insieme. Abbiamo preparato un bel dvd da regalare alla mamma che si è emozionata e ci ha detto che siamo stati bravissimi. Poi abbiamo fatto un altro anno insieme. Abbiamo creato un bel calendario da appendere e da regalare. Due anni di piccoli grandi cose, partite dal nulla. Se ho imparato cos’è l’autismo? Certo che no! Per impararlo dovrei conoscere le migliaia di bambini che ne sono affetti. Dovrei conoscere le loro storie, le loro caratteristiche, le loro possibilità. E forse ancora non ne saprei nulla. Ma una cosa di sicuro l’ho imparata. E’ importante e utile armarsi di conoscenza, di strumenti, di abilità perché fanno parte del nostro bagaglio di educatori. Ma altrettanto importante è sapersene spogliare al momento giusto per essere liberi di guardare, di ascoltare, di osservare. Per essere liberi di tornare alle origini. Per sapersi rimettere in gioco. Per costruire. Per non lasciare che siano sempre gli altri, i preconcetti, le diagnosi, la patologia a dire che,  ma per diventare noi qualcuno capace di scrivere e raccontare una storia diversa.
Questo è il racconto di una sola, singola storia senza nessuna pretesa di generalizzazione. E' il racconto di un punto di vista, di un percorso che abbiamo vissuto con luci e ombre, con difficoltà e sorrisi. Le storie sono tantissime. Non vogliamo portare tristezza ma luce. Speriamo di portarla. Questa storia vuole parlare di questo. Essere operatori e non farsi fermare da niente. Cercare sempre di vedere più in là del nostro naso. Di quello che tutti dicono. Entrare in punta di piedi nelle storie, conoscerle e dare il proprio contributo personale prima che professionale. Senza buonismi o falsi moralismi. Persone con persone. Vite con vite. E costruire. Ci siamo davvero divertiti in questo percorso. Abbiamo pasticciato, dipinto, creato, distrutto, preso e lanciato. Ho visto gli occhi di un ragazzo sorridere.