Questo blog è scritto a quattro mani. Quando leggerete troverete l'essenza di noi. Leggerete la nostra esperienza di vita, come mamme e come educatrici. Questo blog è la nostra visione pedagogica. Questo blog siamo noi! Il nostro motto è: L'ESPERIENZA DEGLI EDUCATORI AL SERVIZIO DEI GENITORI! Aiutateci a rendere speciale questo blog con le vostre condivisioni e i vostri commenti...

sabato 10 dicembre 2016

L'educazione creativa

La cosa più difficile che devo affrontare ogni giorno, nel mio lavoro, è la rigidità. Le persone sono rigide. Siamo rigidi. Rigidità che si declina in mancanza di fantasia, carenza di flessibilità, ipermetodologia applicata in modo impersonale e aprioristico. In parole povere: la morte dell’educazione creativa.
Dicono che il mondo stia cambiando. Dicono che le imprese abbiano sempre più bisogno di persone flessibili, capaci di adattarsi, dinamiche e creative. Dicono che le grandi imprese cerchino i propri dipendenti e i propri dirigenti dentro alle scuole d’arte. Non serve più il personale standardizzato e pre-costruito. Non dobbiamo più sfornare giovani con picchi di conoscenze in un'unica materia ma ricchi di esperienze diverse, capaci di pensiero critico, adatti alla conoscenza del mondo. Persone capaci di essere persone in senso globale.
Eppure, nonostante questa nuova e futuristica richiesta da parte del mondo, noi non riusciamo a lasciar da parte la rigidità dei sistemi e a introdurre la variabile “creatività”. Eppure mi capita di vedere, mio malgrado, molte persone del mondo educativo trovarsi di fronte alla fantasia e alle alternative e venire sopraffatti dal terrore che tutto possa sfuggirgli di mano, che esca fuori dal loro controllo e, di conseguenza, comprimere questa variabilità, schiacciarla dentro ai propri schemi, chiuderla in una scatola, anzi, in un registro, perché, PRIMA, ci sono i programmi da rispettare, le pagine da finire, le performance da programmare. Tutto corre e tutto va, ma cosa resta ai nostri ragazzi? Cosa lasciamo loro in dote? Cosa vogliamo lasciare?
Io me lo chiedo spesso e in molti, come me, cominciano a chiederselo oggi. Tanti vogliono fare qualcosa di diverso e ci provano. Ma fra questi, purtroppo, ancora in troppi sono quelli che cercano la risposta spostando il proprio focus da una rigidità all’altra affidandosi a nuove, fiammanti (ma anche antiche e rinomate) “metodologie”. 
E di questo proprio non riesco a farmene una ragione. Perché le figure educative hanno sempre e spasmodicamente bisogno di  metodi da applicare?  Metodi per ogni cosa. Metodi preferibilmente riconosciuti e attestati da corsi costosissimi, con timbri famosissimi e con nomi altisonanti. Un metodo per le materie scientifiche, uno per quelle umanistiche, uno per le persone così e l’altro per le persone cosà, e infine, ovviamente, un metodo anche per essere creativi. Sì, perchè si deve essere creativi maaaa…solo con la modalità prevista dal metodo. allora ci iscriviamo all’ultimo aggiornamento di grido, andiamo ad imparare le tecniche, compriamo materiali e kit fatti da esperti con materiale che proviene dalla luna (dati i prezzi) e poi? Poi, calati nella meravigliosa variabilità individuale del quotidiano la perdiamo di vista cercando in tutti i modi di far rientrare ogni individuo, ogni mente, ogni vita, ogni esperienza nella stessa struttura “metodica” che abbiamo appena imparato, perché è quella all’avanguardia, è quella scientificamente e dermatologicamente testata. Tutti dentro a un metodo e tutti giù per terra
Sì, perché alla fine, professionali e preparati, ci ritroviamo a fare la cosa più grave che un educatore possa fare, dimenticarsi che ogni essere umano è unico e irripetibile, che ogni evento educativo è hic et nunc (qui ed ora), che non devono essere le persone ad adattarsi al metodo ma il metodo alle persone. E invece lasciamo che il nostro bisogno di scientificità offuschi il nostro senso pedagogico e ci dimentichiamo l’incredibile capacità umana della flessibilità. Ci scordiamo di essere persone dotate di capacità stupefacenti come l’ascolto, la com-prensione, la com-passione.
Così, ci avviamo ogni mattina, con la nostra valigia piena di strategie e modulistiche, la apriamo e la mettiamo sulla cattedra, sulla scrivania, in cucina e con tutto quel ben di Dio prepariamo attività, lezioni, esperienze ben strutturate e impalcate e andiamo avanti dritti verso la meta. Facciamo il nostro numero di incontri prefissati, facendo rigorosamente mettere le domande e le curiosità dei bambini scritte su un post-it o appese su un cartellone “per dopo” (perché nel metodo non è previsto che si perda tempo con le riflessioni uscendo dal tema), raccogliamo dati e chiudiamo pacchetti con relazioni assolutamente metodologiche. Iniziamo e finiamo, iniziamo e finiamo e andiamo avanti così, ben incanalati dentro rassicuranti passerelle addestranti che non hanno niente di educativo e creativo. Siamo forti e sicuri, noi applichiamo il metodo alla lettera, ci siamo formati per farlo, abbiamo il titolo, perciò non è possibile che non funzioni. Siamo ligi al dovere e agli apprendimenti. Non ci sfugge niente. Eppure qualcosa continua a sfuggirci. A questa società qualcosa sfugge continuamente. Ci sfuggono ragazzi dalle mani, ci sfuggono ragazzi dalle scuole, ci sfuggono pensieri e punti di vista, ci sfuggono confronti di idee e visioni del domani. Ci sfuggono le persone. E dentro a questo turbinio ci sfugge il futuro. 
Allora, direte voi, è sbagliato il metodo? 
Io non credo. Non credo che siano sbagliati i metodi a priori ma il modo in cui noi li intendiamo, il modo in cui tentiamo a tutti i costi di applicarli così come ce li hanno insegnati, perché ci rassicurano, perché danno alla pedagogia e all’educazione il taglio scientifico che altrimenti non sentiremmo di avere. E’ sbagliato il fatto che non riusciamo a credere che qualcuno con quei metodi possa arrivare da tutt’altra parte rispetto a quello che noi ci aspettavamo. E’ sbagliato l’immobilismo. E’ sbagliato che insieme al metodo non venga insegnato agli educatori, ai formatori, agli insegnanti, ad accogliere e gestire gli imprevisti, la variabile umana, la variabile creativa, prendendola e inventandosi qualcosa di nuovo. Un’evoluzione delle tecniche, una struttura diversa che ancora continuerà ad evolversi. I grandi pedagogisti che hanno partorito i grandi metodi, oggi, secondo me, avrebbero molto da ridire sulla rigidità e il fissismo. Sono stati capaci di innovare guardando oltre, guardando al futuro, superando barriere e accogliendo la creatività, e oggi, quell’innovazione non ha seguito il passo dei tempi. La prendiamo e la applichiamo così, fino alla prossima innovazione che farà qualcun altro al posto nostro perché noi non abbiamo avuto il coraggio di farla ogni giorno. E infine, la cosa più triste che riusciamo a fare, è l’applicazione cieca, senza metterci la nostra personalità e fantasia educativa. Senza che una traccia di noi rimanga.
Le strutture ci vengono in aiuto, ci offrono strumenti e tecniche valide, ci danno una mano ma, quando ci accorgiamo che stanno diventando vincoli anziché risorse, allora è arrivato il momento di rielaborarle, modificarle, superarle e finanche di abbandonarle per passare oltre. Padroneggiare una tecnica non significa essere buoni educatori. Nemmeno padroneggiarne due, o tre. Essere buoni educatori significa conoscere approfonditamente le tecniche per poterle manipolare, integrare, applicare in modo parziale e personale scegliendo cosa sì e cosa no e facendolo solo ed esclusivamente in funzione dell’individualità di chi abbiamo di fronte, dell’unicità del nostro gruppo classe, della personalità dei nostri educandi.

Facciamo un passo nel futuro, andiamo oltre e sforziamoci di diventare educatori creativi. 

venerdì 11 novembre 2016

L'unità di misura delle scelte

Come si misura il peso di una scelta? Che valore hanno le conseguenza di quello che scegliamo?
 Il mondo, questa settimana, è cambiato. Qualcosa, nella storia, è cambiato. Certamente questo non sarà il luogo per fermarsi a fare confronti politici e a definire se quello che abbiamo davanti sarà un periodo buio oppure no. Quella che vorrei avviare, con questo post, non è una discussione sulle scelte degli americani, ma una riflessione sulla scelta in senso lato. La grande domanda che mi sono posta in questi giorni è se siamo capaci, come adulti, come esseri umani, di sostenere il peso di una scelta e se siamo ancora capaci, come genitori, di insegnare questo ai nostri figli. Mi sono chiesta se in un mondo virtuale come quello in cui viviamo oggi, non si sia perso il senso del reale e delle reali conseguenze di ciò che facciamo.
Oggi, mentre andavo a scuola a prendere i miei figli, ho visto un gruppetto di ragazzini giocare con i petardi e filmare le proprie attività ricreative con il cellulare. Mi sono domandata che fine avrebbe fatto poi quel filmato. Ho immaginato che l’intento del filmarsi potesse essere quello di condividere tale video. Allora mi sono chiesta se qualcuno avesse spiegato a quei ragazzini il significato del “dopo-condivisione”, se qualcuno avesse parlato loro della conseguenza dello “scegliere-di-condividere-tutto”. E, più in generale, se qualcuno avesse parlato loro della conseguenza di una scelta. O anche, perché no, di ogni non-scelta?  Mi sono chiesta se qualche adulto abbia progettato per loro un percorso di crescita orientato al “saper scegliere”, magari chiedendo loro di decidere fra più opzioni, magari ascoltando le loro richieste e portando loro obiezioni sensate, magari affrontando le loro proposte con controproposte valide. Nei piccoli gesti quotidiani, nelle piccole cose della vita, ogni giorno. A tutti noi è chiesto di fare delle scelte. E noi le facciamo. Ma quante volte pensiamo alle reali possibili conseguenze?
Quale grande sfida ci troviamo ad affrontare oggi! Riprendere in mano il nostro futuro e insegnargli a scegliere in modo sensato, a ragionare, a riflettere, a ipotizzare, a porre questioni. Abbiamo l’onere e l’onore di chiedere ai nostri figli di ragionare. Abbiamo l’incarico pressante di portarli all’autonomia di scelta. E allora come fare? Come aiutare un bambino a maturare la responsabilità della scelta quando ci ritroviamo a vivere in un mondo che nella nostra mente non esiste? Quando quello che leggiamo sembra non riguardarci mai? Quando quello che clicchiamo non ha importanza perché tanto nessuno ci conosce perché abbiamo usato un falso username? Quando possiamo scrivere quello che vogliamo su facebook, tanto facebook non esiste?
Mi guardo intorno e vedo genitori sempre meno consapevoli delle intricate ragnatele della realtà, ignari del pasticcio in cui si cacciano i propri figli quando pubblicano video su youtube, inconsapevoli delle trappole della rete e della realtà virtuale. Vedo ragazzi accedere al mondo virtuale senza filtro e senza paura.  Guardare cose una volta segrete ora autorizzate pubblicamente. Condividere la propria e l’altrui vita privata senza pensare a nessuna conseguenza. Se tutto questo, ogni giorno, così vicino a noi, viene percepito tanto lontano, come può essere percepita qualsiasi altra scelta?
Io non ho risposte certe. Ho solo domande. Ma spero che nel farci queste domande riusciamo anche a fermarci a cercare le risposte. Spero che leggendo qualche riga scritta da una mamma che ha la fortuna di poter guardare il futuro da una finestra privilegiata, quella del lavoro educativo, altre mamme si accorgano di quanto sia oggi, come ieri e più di ieri, importante riflettere sul compito arduo e complesso dell’educare alla scelta e alla capacità di portare il fardello che essa comporta. Altre scelte ci riserba il futuro, altre domande e altre risposte da dare e io mi auguro che saremo pronti e preparati. Mi auguro che le future generazioni possano esserlo. Perché l’unica unità di misura delle scelte che facciamo è la quantità di dolore che essere provocano all’altro da noi!

venerdì 28 ottobre 2016

Il mondo che ho nella testa

 A volte mi sento un pesce fuor d’acqua. O meglio, un pesce che s’arrampica su un albero, per citare Einstein. Mi guardo intorno e mi accorgo di quanto il mondo giri al contrario e di come io non riesca a salire a bordo. Per quanto mi sforzi, per quanto ci provi, lui continua a girare dalla parte sbagliata e io continuo a tentare di salire senza successo. Decine di migliaia, decine di milioni, insomma, una moltitudine di persone che proprio io non riesco a capire. Tutti vanno e non dovrebbe andare. Dovrebbero fermarsi e sedersi a pensare. Ma non lo fanno e continuano ad andare. E più io penso e guardo, più le cose vanno per il verso sbagliato. Allora io mi domando se non sia il mio punto di vista a essere sbagliato. Certo, sempre citando Einstein, il mio punto di vista è certamente “relativo”, limitato, soggettivo. Ma è il mio e con esso a me tocca convivere. E il mio punto di vista mi dice che questo mondo sta proprio andando alla deriva. Non in senso fisico, visto che si muove in orbita attorno al sole da miliardi di anni, in equilibrio perfetto, alla distanza perfetta per garantire la vita, in un moto continuo. Ma in senso etico e morale. Va alla deriva e incredibilmente se ne frega. Gli esseri umani se ne fregano. Ce ne freghiamo. Non riusciamo a comprendere quanto sia meraviglioso e incredibile che proprio noi, in questa immensità, siamo vivi. Noi, fatti di ciò che son fatte le stelle, fatti di polvere di materiale universale arrivato da chissà dove, da piccole particelle legate alla vita da un soffio, mentre fuori c'è il nulla cosmico. Siamo terribilmente soli e fragili, seduti sopra un castello di carte con una spada di Damocle sopra la testa ma, nonostante questa enorme verità, riusciamo a passare il nostro tempo a dimenticarcene, accalcati dentro a centri commerciali ricolmi di nulla mentre fuori gli altri alzano muri e confini, mentre schierano missili nucleari di portata apocalittica, mentre affondano nazioni interne sotto milioni di barili di petrolio. Ce ne stiamo lì a urlare e strapparci i capelli per avere l'ultimo i-phone senza sapere che tutti stiamo affondando contemporaneamente. E io proprio non capisco. Non riesco a farmene una ragione. Perché? Perché la nostra mente funziona come una matrioska dove il contenitore più piccolo in cui ci troviamo ci rende ciechi e indifferenti rispetto a ciò che sta fuori? Cosa può cambiare questa visione limitata che abbiamo di noi e degli altri e del mondo e dell’universo? Cosa potrebbe spingere le persone a dire “mi interessa”, a guardarsi dal di fuori e a domandarsi “ma che cosa sto facendo”?
So che nessuno sarà mai in grado di rispondere a queste domande e che forse la risposta non esiste o, ancora meglio, che ne esistono molte. So che con le mie mani nude difficilmente riuscirò a risalire la cascata da cui sono scesa per vedere cosa c’è sopra e che forse dovrei smettere di sforzarmi di nuotare controcorrente. Ma io non riesco a smettere di guardare il messaggio della campagna di Save the Children che ogni dieci minuti intervalla la proiezione dei goal della giornata e non riesco a smettere di dirmi quanto male stiano insieme queste due cose. In un mondo ideale non dovrebbero esserci bambini da salvare mentre qualcuno si picchia per un goal. Nel mondo che ho nella mia testa qualcosa è andato storto. Siamo davvero gli esseri evoluti che ci vantiamo di essere? O siamo solo quella matrioska che nasconde e camuffa molto bene l’essere dis-umano che c’è in noi?
Penso e mi arrovello e in questa giornata di fine ottobre scrivo. Scrivo per riflettere e non scordare le mie riflessioni. Scrivo per ricordare che ho il potere del pensiero e che posso pensare un progetto diverso. Posso muovere una pedina e cambiare il corso della mia partita. E posso farlo anche per qualcun altro perché io ho la fortuna di aver scelto il lavoro più incredibile che esista. Ho scelto di essere un’educatrice e di occuparmi del nostro futuro. Posso essere qualcosa di importante per qualcuno, posso mostrare cose importanti a qualcuno, posso raccontare cose importanti e trasmettere una visione diversa del mondo che verrà. Forse è poco, forse non è nulla o magari invece è tanto. E so che dovrà essere mia cura scegliere il messaggio da trasmettere. Sarà mia cura fermarmi e pensare. Fermare e pensare. La sfida sarà enorme e il risultato incerto, ma per l’idealista che sono non può essere che io non ci provi. Voglio che le persone possano capire. Voglio provarci pur sapendo che avrò con me soltanto le mie mani nude e il mondo che ho nella testa per tentare di cambiare il mondo che oggi è.

venerdì 7 ottobre 2016

Le scintille

Qual è la sfida più difficile per un educatore? Me lo sono chiesta tante volte e spesso mi fermo a meditarci. Forse è la relazione con i bambini? Forse quella con i colleghi o i genitori? Forse le incombenze quotidiane e i limiti del luogo in cui ci troviamo? Io non credo. Quella che io percepisco come la sfida più grande è il fatto di non perdere mai l’entusiasmo. La scintilla che accende il pensiero. Il desiderio di non appiattirsi, di accogliere le sfide e di affrontarle cercando nuove e innovative risposte. Aprire la propria mente, uscire dal quotidiano e vedere oltre. Alzarsi in volo e vedere quella miriade di possibilità che l’essere umano è. Questa io credo sia la grande sfida. Ogni giorno, troppo spesso, incontro adulti troppo adulti. Insegnanti ed educatori “cattedratizzati” e “cattedratizzanti”, senza spirito, spenti. Insegnanti ed educatori che spengono scintille e che omologano e si omologano verso il basso. Riuscire a non farsi fagocitare da tutto questo, a non lasciarsi spegnere, è lo sforzo più grande che viene richiesto a ognuno di noi. Qualcuno, una volta, mi ha detto scherzando di non guardare troppo fuori dalla porta altrimenti quando si rientra e ci si scontra con la realtà del sistema educativo scolastico poi ci prende la depressione. Forse è vero. Forse fermarsi, formarsi, riflettere, incontrare alternative, vedere oltre, ha questo triste rovescio della medaglia: il fatto di sentirsi impotenti di fronte al sistema immobile e quindi, di conseguenza, di percepirsi disarmati. Forse! Ma io non penso che sia così. Io non voglio perdere la mia scintilla. Io voglio continuare a formarmi, a conoscere e a mettermi in gioco, voglio continuare a tenere accesa la mia fiamma, voglio continuare a rubare qualche minuto al cambio dell’ora per far fare ricreazioni cerebrali ai miei ragazzi, voglio girare tra i banchi mentre assistono all’ultima estenuante lezione frontale della giornata e tenerli svegli con qualche stratagemma che li faccia sorridere, voglio accendere la musica, farli camminare per comprendere quanto tempo passa prima dell’arrivo dell’uomo sulla terra. Voglio continuare a credere che sia possibile contagiare chi ho di fianco per far divampare un incendio di idee. So che è possibile. Ci credo. E so che posso e devo provare a contagiare anche chi ogni giorno entra in classe e si siede in cattedra. Certo, so bene che fortunatamente esistono molti insegnanti fortemente motivati, entusiasti, desiderosi di fare. Ma so anche, purtroppo, che ne esistono altri che si son spenti in una routine fatta di scadenze, di documenti da riempire, di scartoffie da compilare, di progetti da mettere per iscritto, di richieste che catturano in una ragnatela. E so infine che tra questi ultimi ce ne sono diversi che quella scintilla non l’hanno spenta del tutto ma solo sopita, smarrita nel quotidiano. Ed ecco la sfida che mi sento di raccogliere. La sfida di riuscire a riconoscerli e a contagiarli perché so che, non appena a contatto con il virus, questi insegnanti s’infiammeranno e si lasceranno trasportare, accenderanno idee, svilupperanno proposte che poi cambieranno il loro modo di esserci. So che è possibile. L’ho sperimentato. Forse non sempre, forse non con tutti, ma so che è possibile provarci anche correndo il rischio di fallire nel tentativo. Posso fallire ma come educatore sento il dovere pedagogico di non smettere di provarci, di non spegnermi, di perseguire l’obiettivo di impedire che gli altri si spengano. Gli alunni per primi, gli insegnanti poi e infine le famiglie. So che si può fare. Si può mostrare e dare possibilità. Vedere che qualcosa può cambiare. Un giorno dopo l’altro, un passo dopo l’altro. Essere educatore per essere formatore. Mostrare con il proprio essere il poter essere. Vorrei che chi ancora possiede questo entusiasmo non permetta agli altri di spegnersi. Perché un futuro più luminoso è possibile grazie alle scintille di oggi.

mercoledì 7 settembre 2016

Cacciatori di Tesori!

Siamo così! Ci arrovelliamo per trovare le ultime novità, le tendenze del momento e possibilmente quelle del futuro, ci sforziamo di diventare gli scopritori dell’inesplorato, ovunque e per tutto: arte, musica, moda, cucina e persino educazione. Tendenze nuove o che ci sembrano tali. E via, ci gettiamo a pesce per scoprire ogni loro segreto, per possederlo e farlo nostro, a nostro beneficio e a beneficio degli altri, con un notevole ritorno di autostima e gloria! Ma se c’è una cosa che non impariamo mai è il potere della semplicità!
Quella fatta di piccoli gesti e grandi decisioni, quella che contempla le rinunce e i no, quella per cui accumulare la “roba” non è un must. Una semplicità fatta di condivisione e di relazioni, fatta dalla possibilità di stare insieme. Quella semplicità che rivivo, ad esempio, quando in estate partecipo ai campi scout.
Io non sono una scout, non lo sono mai stata. Quando ero piccola nel mio paese c’era l’opportunità di fare ginnastica artistica, sci, pattinaggio su ghiaccio, tennis, nuoto, ma purtroppo gli scout non c’erano. Ho conosciuto la storia di Lord Baden Powell in università, sui libri di testo per un esame, e in quell’occasione ho avuto l’opportunità di apprezzare questo grande progetto.  Perciò, quando sono diventata madre, ho deciso che avrei cercato il movimento scout per mio figlio e così ho fatto. Quando iscrissi il mio bambino al gruppo, allora aveva 8 anni. Fu così che entrò nei lupetti. Una grande magia per lui e per noi genitori, grazie ai capi scout che intessono relazioni umane profonde e anche un po’ magiche. Ora è un fiero esploratore cngei e la pattuglia per lui è il luogo dove incontrarsi, dove sperimentare, dove vivere in pienezza l’età dell’adolescenza attraverso esperienze di autonomia “vigilata”. E’ il luogo in un certo senso del “cresco, faccio da solo ma con gli altri”, il luogo dove nella semplicità si ritrova sé stessi. Ho vissuto questo nel percorso di mio figlio e l’ho ritrovato quando ho iniziato a partecipare io stessa ai campi come mamma che aiuta in cucina. Certo, tutte le volte, prima di partire, la fatica del quotidiano mi fa sentire quasi soffocare al pensiero di andare, ma poi, quando sono là, dopo solo una giornata, ritrovo una parte di me stessa quasi sepolta. Ritrovo il piacere di condividere: gli spazi, le camere, i bagni, la cucina. Ritrovo la gioia e allo stesso tempo la fatica di avere ritmi per tutti uguali. Ritrovo i riti e la loro semplicità. Certo, non è assolutamente facile adattarsi, soprattutto quando si è adulti e abituati a gestire la propria esistenza individuale o al massimo quella della propria famiglia. Ma poi, nel fare insieme, riscopro l’arte della relazione, della condivisione, della mediazione. Preparare i pasti ai lupetti ad esempio non è una semplice azione culinaria per me ma è una scoperta. E’ scoprire come il cibo possa essere uno strumento potente di cambiamento. Cibi assolutamente mai mangiati, mai voluti, quando si è insieme vengono spazzolati con una voracità da lupi. Ma non solo! I bambini ringraziano per quello che gli viene preparato e ci tengono a farlo personalmente.
Vi sembrerà una banalità ma vi garantisco che non lo è. Non è banale il fatto che i bambini fuori casa siano diversi da come noi siamo abituati a vederli, che riescano ad adattarsi, che sappiano apprezzare e ringraziare! In un tempo in cui tutti continuiamo a lamentarci per la maleducazione e l’irriconoscenza vedere la loro capacità di aprirsi all’altro è per me la più grande delle opportunità dello stare in un campo.
Ed è ancor meno una banalità quando si ascolta ciò che succede intorno a noi. Nizza, la Turchia, Monaco, la Siria. Ascoltare ciò che accade di terribile nella società riporta nuovamente il mio pensiero ai bambini, agli adolescenti, al senso del crescere in questo mondo.

Ho ascoltato i dibattiti delle ultime settimane sulle patologie psichiatriche dei bambini e degli adolescenti, sui controlli farmacologici, sulla scuola, sulla famiglia, sullo Stato e sulle varie responsabilità, di chi sa ma non fa nulla, di chi vede e non agisce, sui video giochi, sui tempi, gli usi e gli abusi e su molto altro ancora. E così ho ripensato più intensamente a quello che ho vissuto durante la settimana con i lupetti. E ho riscoperto la semplicità della vita. La naturalezza della condivisione. La gioia di crescere insieme e di affrontare insieme le sfide e le fatiche. E allora vorrei dir loro grazie! Grazie per avermi dato la possibilità di rivedere il mio personale modo di vivere, grazie per il confronto, grazie per il dialogo, grazie per avermi fatto sentire parte di qualche cosa che ci com-prende, qualunque sia la nostra persona, la nostra personalità, la nostra religione, il nostro colore, la provenienza sociale. Grazie ai capi scout che mettono a disposizione il loro tempo personale per l’altro con un unico grande obiettivo: rendere i bambini futuri cittadini del mondo consapevoli e, scusate se a voi sembra poco, aperti all’altro da sé.


mercoledì 31 agosto 2016

E' tempo di riprendere per tempo

Risultati immagini per andare a scuolaEccoci a un passo da Settembre che, come Gennaio, per me è il mese dei buoni propositi perché a settembre ricomincia tutto. Un nuovo anno scolastico, nuovi percorsi che portano con sé nuovi impegni, nuove scadenze e nuove sveglie. A settembre si fanno progetti a medio termine, si pianificano interventi, si contattano persone. Si riparte e nuove sfide ci aspettano. Ma cosa significa ricominciare? Ricominciare significa riallacciare i rapporti, ritrovare il filo del discorso, riprendere con il tasto play dopo aver messo in pausa per un tempo più o meno lungo e ricordarsi a che punto avevamo lasciato il film. Tutto questo non è così facile e neppure così scontato. Spesso percepiamo una certa fatica, sappiamo che ci richiederà un periodo di riadattamento e a volte ci sembra una cosa difficilissima. Allora mi domando: “Riusciamo a renderci conto di quanto sia difficile per i nostri bambini ricominciare? Ricominciare la scuola, le attività sportive, gli impegni sociali; riprendere i ritmi, abituare l’organismo, attivare le risposte?”.  A volte mi guardo intorno e mi sembra che molti genitori non si rendano conto dell’importanza e del peso che ha il “ricominciare”. Troppo spesso vedo dare per scontati l’abitudine ai ritmi di vita e il tempo necessario al recupero. Non si dedica più tempo al ricominciare. E così, dalla sera alla mattina, i bambini vengono scaraventati a scuola dopo essersi dedicati fino all’ultimo minuto ai bagordi estivi. Perché si sa che, spesso, e giustamente, in estate si va a letto più tardi, ci si alza con più calma, si pranza con orari alterati e lo stesso vale per la cena, si dilatano i tempi e si cambiano le attività. L’estate ha un ritmo tutto suo. E ci dispiace doverlo lasciare. Ci dispiace dover ritornare alle scartoffie dell’ufficio, ai colleghi da incontrare, alle riunioni da programmare, alle officine da riorganizzare, al miraggio del fine settimana. Per questo, noi adulti, aspettiamo fino all’ultimo per farcene una ragione e senza pensarci troppo facciamo fare lo stesso ai nostri figli. Li gettiamo di colpo, come un tuffo nell’acqua gelata, dentro le loro abitudini pre-estive. Il suono della campanella, la mensa che deve essere liberata velocemente per il prossimo turno, i compiti da svolgere nel quarto d’ora di pausa tra la scuola e la danza, la sacca da non dimenticare in macchina, la cartella da preparare, le corse dalla scuola alla palestra e via così, dimenticandoci che i bambini invece hanno bisogno di tempo per riabituarsi, per riappropriarsi dei ritmi, per ricominciare. E non riusciamo a comprendere che questo bisogno necessita di risposte pianificate tanto più quanto il bambino è piccolo. Dare il tempo ai bambini di riabituarsi è un gesto di responsabilità. Ricominciare con anticipo a prendere i giusti ritmi della nanna, della pappa, del pisolino, del gioco e di tutto quello che fa parte della giornata di un bambino, significa ricominciare l’anno scolastico con molto meno stress, per noi e per i nostri bambini. E quando i bimbi sono più grandi? Il discorso non cambia. Stare svegli fino a tardi, fino all’ultimo giorno, significa richiedere al loro metabolismo un cambio troppo drastico e troppo veloce ritrovandoci figli stanchi ancora prima che arrivi Natale. Può sembrare una banalità ma vi assicuro che non lo è. La prima cosa che si insegna ai bimbi fin dal nido è l’importanza del ritmo e del rito. Ogni attività ha il proprio rito di preparazione e le giornate si susseguono con ritmi precisi e scadenzati all’interno dei quali si snodano le attività e le proposte. Questo rassicura i bambini, dona loro la prevedibilità e la certezza, fa percepire loro il mondo come qualcosa di com-prensibile, che possono prendere con sé. Se così non fosse l’effetto mina-vagante nei bambini sarebbe assicurato. I bambini si sentirebbero continuamente strappati da sé per essere gettati in qualcosa che non si aspettano. Certo, per i grandi non funziona nello stesso modo, ma il bisogno di avere un ritmo, che non per niente si definisce “umano”, è qualcosa a cui noi adulti dobbiamo dare una risposta. Una risposta pedagogicamente ed educativamente accettabile. I bambini non sono pacchi della spesa che prendi dalla macchina e metti in casa, che svuoti e posizioni nel frigorifero. Non possono essere presi, portati qua, lasciati là, svegliati un giorno alle 6:00, il giorno dopo alle 10:00 e l’altro ancora non svegliati affatto. Non possiamo farli schizzare all’interno delle loro vite come palle da flipper e poi stupirci se hanno crolli emotivi, crisi di pianto, rifiuti e atteggiamenti oppositivi. Ma quanto è difficile fare i conti con questi bisogni? Quanto è difficile fermarsi e pensare la vita dei nostri figli all’interno di un progetto? Ci richiede di adeguare le nostre scelte, di fare sacrifici e rinunce, di mettere loro al primo posto. Ci richiede di fare un passo indietro. Ci richiede uno sforzo. Lo sforzo di pensare i nostri figli al centro, adeguandoci ai loro semplici ma impegnativi bisogni. E anche questo è difficile. Difficile sforzarsi di pensare l’organizzazione e il ritmo come parti fondamentali del nostro lavoro educativo. Difficile comprendere quanto questo influenzi l’umore e la stabilità psico-fisica dei nostri bambini. Ma nel ricominciare questo nuovo anno scolastico spero che questa riflessione ci aiuti a compiere questo sforzo. Sforziamoci di dare loro il tempo di riprendere per tempo. Rispettiamo i loro ritmi. Aiutiamoli introducendoli ad abitudini sane e il più possibile vicine ai loro bisogni di bambini. Al bisogno di dormire il giusto numero di ore; al bisogno di mangiare pasti equilibrati nel giusto tempo; al bisogno di dedicare spazio al riposo e alla tranquillità. Sforziamoci di ricominciare da qui.

mercoledì 29 giugno 2016

Sotto al Baobab

Fa caldo. Abbastanza caldo da limitare il pensiero. Si fa fatica a fare tutto. Ad alzarsi la mattina, a mettersi in moto, a leggere, perfino a riposare. Io credo che siamo biologicamente programmati per lavorare solo in autunno e in primavera perché in inverno il corpo va in letargo e in estate il corpo chiede relax (come i leoni sdraiati sotto ai baobab della savana). Ma la società ci chiede altro. Ci chiede di essere efficienti tutto l’anno. Ci chiede di tenere il ritmo, op! op! op! Chi si ferma è perduto. Avanti tutta verso nuove avventure quotidiane. O verso le stesse degli ultimi anni. E pensare che alle origini l'uomo aveva bisogno di lavorare solo tre ore al giorno per garantirsi la sopravvivenza. Ma oggi no. Oggi non solo dobbiamo essere presenti ed efficienti, ma dobbiamo esserlo nel modo giusto. Quale modo? Il modo convenzionalmente accettato. Mai fuori dai binari, mai divergentemente, mai oltre. E così anche per i nostri figli. Esserci sempre, pimpanti e atletici. Sempre in linea retta possibilmente crescente. Non possiamo più permetterci di permetter loro la divergenza. Ritmo, energia, velocità! Tutti dentro a luoghi ben definiti, con un metodo (uno solo) ben definito, a fare attività ben definite. Niente variabili (troppo complicate da gestire). Niente alternative (troppo numerose da tenere presente). Niente più tempo all’ozio, alla noia, al tempo dedicato all’incanto. Non ci si può più incantare a guardare il paesaggio scorrere fuori da un finestrino mettendo in pausa la mente. Non si può più oziare sdraiati in un prato a litigare con gli insetti che disturbano. Non ci si può più annoiare passeggiando in un sentiero di campagna e prendendo a calci i sassi. Perdere tempo. Dimenticarsi il tempo. Lasciare andare il tempo.
Come si fa? Non si può! Bisogna andare ai centri estivi, bisogna fare i compiti e i corsi di recupero, bisogna leggere cinque libri a scelta e fare le schede libro (terribili!), bisogna ricordarsi. Ricordarsi! Cosa? Non mi ricordo cosa devo ricordarmi ma so che mi devo ricordare. E la vita non ammette pause. La nostra convenzione sociale non le ammette. Ma noi ne abbiamo bisogno. I bambini soprattutto ne hanno bisogno. La pace, la distrazione, il recupero. Non l’inattività ma l’attività libera, evocativa, catartica. L’attività che matura la fantasia, l’immaginazione, i percorsi alternativi. Perché, signore e signori, vi dò una notizia: si può essere alternativi! Si può essere divergenti! Le neuroscienze ce lo confermano. Non esiste solo un’intelligenza. E dobbiamo farcene una ragione. Smettiamola di aspettarci che le neurodiversità smettano di essere diverse. Smettiamola di credere che esista solo un modo. Siamo sette miliardi di individui inseriti in migliaia di culture, con centinaia di lingue e pensieri. E siamo solo un pianeta dentro a un sistema, inserito in una galassia fra milioni di galassie dell’inimmaginabile universo…possibile che il nostro ego sia così smisurato da credersi l’unico? Allora impariamo ad accettare le variabili, le pause, i rallentamenti. Ascoltiamoci e ascoltiamoli. Altrimenti prima o poi la nostra mente troverà il modo per fuggire. Troverà la strada, magari attraverso il corpo, per dire basta, per dire stop, per dire fermati! Godiamoci l’estate sotto al baobab e lasciamo che anche i nostri figli capiscano che finalmente è arrivata l’estate!!!

mercoledì 11 maggio 2016

C'è una mamma....

Risultati immagini per mamma che annusa bimboC’è una mamma che ogni mattina, alle 8.25 precise, arriva alla scuola dell’infanzia ad accompagnare il proprio bambino. Parte da casa sua, a circa un chilometro di distanza, a piedi. Freddo, neve, pioggia o sole non contano. Lei parte, a piedi, con il suo bambino, e lo accompagna a scuola. E ogni giorno alle 15.45 ritorna e aspetta che aprano i cancelli per riportarlo a casa. Ma non solo. Questa mamma, ogni mattina, prepara anche la sua bambina di tre mesi. Prepara il bimbo più grande poi si dedica alla piccola. Le dà la colazione, la cambia, la veste, la avvolge in una calda copertina di pile, la mette nella carrozzina blu, copre la carrozzina con un sacchetto trasparente di plastica quando piove (perché il parapioggia adattato lei non ce l’ha) e parte da casa. Con entrambi i figli. Arriva a scuola e lascia la carrozzina fuori dai cancelli, perché dentro, sotto la tettoia, al riparo, non si può lasciare, è una questione di sicurezza. Allora lei lascia fuori la carrozzina e, sotto la pioggia, sposta il sacchetto bagnato, sfila veloce la sua bambina e entra ad accompagnare il piccolo che nel frattempo ha salito le scale e si è avviato verso la sua classe. Quando arrivano davanti alla classe, con una mano tiene in braccio la bambina e con l’altra aiuta il piccolo a svestirsi. Si abbassa dal suo bambino, lo bacia, gli fa baciare la sorellina, lo saluta e si avvia. Esce, sotto la pioggia, senza l ‘ombrello (perché tanto non riuscirebbe a tenerlo in mano con la bimba in braccio o la carrozzina da spingere), rimette la bimba al riparo e si incammina verso casa, verso le sue faccende da mamma. Ogni giorno. Ogni settimana. Tutto l’anno. Lei si alza ogni mattina e lo fa. E’ una mamma giovane. E’ una mamma stanca e si vede. Ma sorride quando incrocia il tuo sguardo. Ti sorride e cammina verso casa. Con amore. Nonostante tutto.
Poi c’è un’altra mamma. Lei ha tre figli. E’ rimasta sola troppo presto e troppo in fretta. Si prende cura di loro. Combatte. Fa i conti con la vita che continua nonostante tutto. Sorride poco e va avanti. Fa quel che può e lo fa al meglio. Ci prova. Non molla perché non si può mollare. I figli crescono, hanno bisogno della mamma oggi più di ieri. Sempre. E allora va alle riunioni scolastiche, si barcamena tra casa e scuola, li porta alle attività sportive e agli impegni settimanali. Cerca di non perdere i pezzi. Ma i pezzi ogni tanto li perde. MA pazienza. Tutto continua lo stesso. Si alza, ogni mattina, e ricomincia. Li guarda diventare grandi e ce la mette tutta perché abbiano una vita felice.
Poi ci sono altre mamme. Le mamme turbo. Le mamme che sono le mamme di tutti. Quelle che si scrivono messaggi per confortarsi e trovare la solidarietà e il sorriso delle altre. Le mamme che si prendono un caffè di corsa, una volta la settimana, solo per il gusto di vedersi almeno quei cinque minuti e darsi la carica per iniziare un'altra lunga giornata divise tra lavoro, casa, colloqui con i professori, compiti da finire, panni da stirare, lavatrici, scadenze, promemoria che suonano inascoltati in borsa e che si accumulano alla fine dell’agenda perdendo la speranza di venire mai spuntati. Sono le mamme che ci sono e che ci provano ad esserci. Quelle che hanno paura ma affrontano tutto a testa alta e con coraggio. Quelle che contano su se stesse e anche sulle loro amiche. Le  mamme che coccolano i propri bambini annusandone il profumo intensamente perché, si sa, i bambini sanno di felicità.  Quelle che si arrabbiano e li rimproverano, che li correggono, che li sostengono, che li aiutano a spiccare il volo. Quelle che programmano tutto e quelle che alla fine si incasinano lo stesso.
Fra tutte queste mamme ci sono anche io. E questo non è un post in ritardo per festeggiare nel giorno sbagliato la festa della mamma. Questo è un post per tutti i giorni. Un post che racconta il racconto di sempre. Un micro mondo di grandi mamme che vogliono esserci. Questo post è per chi ci si ritrova qui, per chi sa di esserci, per chi vuole esserci e anche per chi ci sarà. Un post per chi cerca aiuto e per chi lo dà.

C’è una mamma oggi, in questo post, e quella mamma sono io….

lunedì 2 maggio 2016

Cara Prof,

mi sono ritrovata, in questo ultimo periodo della mia vita, a riflettere su molte cose. A riflettere e a guardarmi indietro cercando di ritrovare alcune radici del complicato albero che sono oggi. Ho cercato e, spesso, mi sono sorpresa a pensare al periodo in cui frequentavo le allora "scuole medie", al periodo in cui lei era la mia, la nostra, insegnante di lettere. Perché proprio quel periodo? Forse perché è il primo di cui ho memoria consapevole e non solo d’immagine? Forse perché è l’età precisa dei ragazzi con cui mi trovo a lavorare oggi? O forse perché è proprio lì che affonda le radici la mia essenza di oggi? E ripensando a quel periodo e ai miei vissuti di oggi, mi sono domandata quanta influenza, più o meno consapevole, abbiano gli insegnanti nella vita dei loro studenti. Beh…tanta, parecchia, troppa a volte. Ma la sua è stata la migliore delle influenze che potessi avere. Lì, proprio in quel periodo, la mia memoria ha sedimento ciò che il suo esempio è stato per me. E proprio nella mia memoria ritrovo ancora oggi quelle esperienze. I percorsi di teatro a cui tutti volevano e potevano partecipare, ognuno con le proprie competenze. I film che trattavano temi importanti su cui avviare discussioni, tante volte anche molto difficili e all’avanguardia per quegli anni, come il divorzio o l’handicap. I pomeriggi a fare ricerca in piccoli gruppi per costruire cartelloni di geografia (quello che oggi chiamano cooperative learning, perché fa più figo). I testi letti insieme e trasformati in sceneggiatura per i nostri spettacoli teatrali, il migliore fra tanti “Farenheit 451”. E di fronte a lei i pensieri che volavano, le menti a cui porre domande, le personalità da crescere, educare, aiutare a diventare grandi. Chissà quante volte avrà sbagliato anche lei, prof, e quante volte si sarà ritrovata ad affrontare sfide più grandi di quel che potesse immaginare, come quando ha perso tre colleghi in un brutto incidente e ha dovuto affrontare con noi i temi della perdita e del lutto. Ma l’ha fatto. Ma lei c’è stata. C’era. C’è stata per piangere e c’è stata per ridere. Rideva con noi, s’arrabbiava, ci parlava e tentava di capire e districare le matasse più intricate. Io me lo ricordo. E adesso so cosa stava facendo con noi, cosa provava a fare. Cercava di essere un buon insegnante. Ogni giorno un insegnante migliore del giorno precedente. Un insegnante competente nelle proprie materie ma capace di trasmettere vita, passioni, pensieri. Un essere umano fra esseri umani in formazione. E allora penso che insegnanti come lei dovrebbero essercene molti di più perché è questo che fa la scuola una buona scuola. Al di là dei concorsi per la corsa alle assunzioni. Al di là dei contenuti per saper contenuti. Al di là delle leggi imparate a memoria. Sì, ci saranno ancora concorsi, ci saranno forse assunzioni, ma chi insegnerà a quegli insegnanti a guardare i ragazzi negli occhi e a leggere le loro anime ascoltando le loro parole? Chi insegnerà loro come stare tra i ragazzi con umiltà e autorevolezza allo stesso tempo? Chi spiegherà loro che si troveranno ad avere fra le mani persone che poi domani avranno fra le mani noi? Non è come in un libro di testo. E’ la vita. E chi decide chi è competente in questo e chi no? La scuola non è uno slogan. Non è buona soltanto perché qualcuno fa una riforma e la intitola così. La scuola è un terno al lotto e se vinci o se perdi dipende solo dalle personalità di chi incontri e che la porta avanti. Dalla loro empatia, dal loro “voler esserci”, dalla loro passione. Quanto è difficile arrivare a far comprendere tutto questo! Quanto è difficile, ma continuo a sperare non impossibile, trasformare la scuola in buona scuola per le persone che siamo, per i nostri figli e per i figli che avremo e daremo al mondo! Allora prof, oggi questo post è per lei. Per lei che ha lottato per mostrare che una buona scuola esisteva già, 25 anni fa, nelle mani di persone come lei….

domenica 1 maggio 2016

EDUCA...ET LABORA!

Io mi sento fortunata. Per svariati motivi mi sento fortunata. Oggi che è il primo maggio non posso che sentirmi fortunata per il fatto di avere un lavoro.  Ma non solo. Sono fortunata soprattutto perché questo lavoro mi piace, mi appassiona, mi rende orgogliosa. Ci sono stati molti conflitti fra me e il mio lavoro negli ultimi 17 anni. Abbiamo avuto problemi di reciproca convivenza. A volte il mio lavoro mi ha messa a dura prova. A volte ho perso il senso di quello che stavo facendo. Altre ancora le mie aspettative superavano le sue possibilità e viceversa. Ma non ci siamo mai arresi, io e il mio lavoro. Mi è capitato di immaginarmi a fare altro. Mi è capitato di pensare di mollare e lasciare tutto per tornare dietro a una scrivania. Ma non l’ho mai fatto. E ho scoperto qualcosa di meraviglioso! Ho scoperto che amo il mio lavoro e lui ama me. Ho scoperto che solo questo lavoro è capace di darmi gioie e dolori che nessun altro potrebbe. Ho scoperto che è capace di elevare la mia autostima sopra ogni immaginario e allo stesso tempo sa sfidarmi come non avrei mai potuto credere possibile. Ho scoperto che nei momenti di crisi io non posso e non devo mollare. C’è sempre un’altra via. Nei momenti di crisi devo rimettermi in gioco e immaginare altro. Devo vedere oltre e intraprendere nuove strade, aprire porte, mettermi in discussione. Ho scoperto che posso farmi domande e cercare risposte e ho scoperto che posso leggere, studiare, conoscere, incontrare, capire. Posso uscire dal mio piccolo microcosmo e frequentare altri microcosmi, ascoltare le parole degli altri, i racconti degli altri, le esperienze degli altri. Ho scoperto che il mio lavoro, fra la gente e per la gente, mi apre un mondo di possibilità che credevo impossibili. Ho scoperto che se mi fermassi a vivere la giornata senza guardare al futuro non potrei fare ciò che so fare davvero, sognare. Se non immaginassi occhi piccoli diventare grandi, mani piccole diventare grandi, persone piccole diventare grandi, non potrei avere progetti e obiettivi e tutto perderebbe di senso. Il qui e ora è solo un frammento di ciò che siamo, di ciò che sono gli altri di fronte a noi e la mia sfida, ogni giorno, è vedere oltre l’hic et nunc. Sono fortunata. E lo sono perché oggi, ancora una volta, mi viene chiesto di leggere nuove anime, di immaginare nuovi futuri, di lavorare per loro. Sono fortunata perché, non solo ho un lavoro, ma posso specchiarmi in esso, posso ritrovarmi, perdermi e ritrovarmi di nuovo. Posso essere fiera di quello che faccio. E per questo oggi voglio festeggiare insieme a voi. Voglio festeggiare il lavoro educativo, quello che in tanti criticano, sottovalutano, sottopagano, sottostimano. E voglio festeggiare tutto il lavoro. Come diritto e non solo come dovere. Come passione e non solo come fatica. E il mio pensiero va a chi sogna, a chi lotta, a chi cerca, a chi spera. Va a chi oggi, come ieri, cerca la propria dignità e non la trova. A chi l’ha trovata e non vuole più perderla. A chi ne vorrebbe una nuova. Ai gradini che salgono e ai gradini che scendono. Oggi festeggio e penso a ciò che ho e che non vorrei perdere. Sono fortunata e sono un’educatrice!!

domenica 24 aprile 2016

LIBERTA'

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Domani sarà il 25 Aprile, festa della Liberazione. La libertà. Cos’è per me la libertà? Essere liberi significa forse poter fare tutto ciò che si vuole quando si vuole? Oh no. Non è questo. Io non posso fare ciò che voglio nel momento in cui lo voglio, sempre. Ma posso scegliere di NON fare ciò che ritengo sbagliato. Posso scegliere di dire NO. Questo posso farlo. Questa è la democrazia. La democrazia ci permette di dire NO, di dire basta. La democrazia ci permette di cambiare. Ho discusso di questo, molte volte, con  molte persone. Ho discusso del fatto che vada bene lamentarsi. Io comprendo le lamentele e spesso le condivido. Capisco cosa significa arrabbiarsi perché la corruzione cresce, perché i privilegi non vengono cancellati, perché gli interessi personali vengono sempre prima di quelli pubblici. Arrabbiarsi è un diritto democratico. Siamo liberi di arrabbiarci. Liberi di lamentarci. Liberi di alzarci e scrivere un post acido su facebook o un post ironico o uno sarcastico. Possiamo condividere video, foto, aforismi e immagini e nessuno ci torturerà per questo. Nessuno ci porterà via dalle nostre famiglie e farà sparire il nostro cadavere. Noi siamo una democrazia. Noi siamo liberi. Dalla democrazia non si scappa. Dalla democrazia si parte con una valigia piena di vestiti e sogni, con un passaporto e un biglietto aereo. Non si scappa da clandestini con quattro stracci e i figli in braccio. Non ci si ritrova nella terra di nessuno dove nessuno ti vuole. Se parti da un paese democratico e arrivi in un paese democratico, non perdi il diritto di stare in quel paese perché da un giorno all’altro non sei più considerato un rifugiato politico e allora perdi tutto e ti rimandano indietro. Se vieni da un paese democratico con un passaporto in mano, giri da uomo libero. In un paese democratico puoi scegliere di andare a votare a un referendum, puoi scegliere di votare sì o di votare no, e puoi perfino scegliere di non votare. Puoi arrabbiarti col presidente del consiglio e pubblicare una foto ridicola. Ma in un paese democratico non hai solo il diritto di arrabbiarti. Hai il dovere di cambiare le cose. Nel tuo piccolo. Nel tuo quotidiano. In un paese democratico puoi scegliere tu che cosa insegnare ai tuoi figli. Puoi decidere tu di ricordare loro che vivono in un paese democratico perché qualcun altro, prima di loro, è morto per questo. Puoi mostrare loro, con il tuo esempio, cosa è giusto e cosa è sbagliato. Puoi insegnare a denunciare, a indignarsi, a dire di no. Puoi insegnare a fare la raccolta differenziata, a puntare il dito contro chi sporca o deturpa l’ambiente. Puoi insegnare a leggere, a pensare, a farsi domande sul mondo. Puoi insegnare ai tuoi figli a fare del bene, a essere solidali, a ritagliarsi il proprio posto nel mondo ma non a discapito degli altri. Si soffre in democrazia? Certo che si soffre! C’è chi ha troppo e chi ha troppo poco. Che chi non ha nulla. C’è chi lotta per arrivare a fine mese. Ma a differenza dei paesi senza libertà, in democrazia possiamo insegnare ai nostri figli a tendere la mano, a dire no, a votare contro per mostrare il proprio gesto di solidarietà nei confronti di chi non ha più la forza di lottare per sé. Possiamo insegnare a far parte di associazioni, a dare una mano, a manifestare pacificamente ma in modo deciso. Possiamo insegnare a usare i mezzi di comunicazione per diffondere cultura e positività. Possiamo dire NO coi nostri gesti quotidiani. Possiamo combattere l’illegalità insegnando la legalità. Possiamo combattere l’egoismo insegnando l’altruismo. Possiamo combattere l’ignoranza insegnando la cultura…Possiamo farlo insieme, da uomini e donne liberi, per i nostri figli, per il loro e il nostro futuro, per avere domani una nuova classe dirigente responsabile ed etica, per non avere più così tante cose di cui lamentarci, per conservare, ancora una volta, la nostra LIBERTA’!

domenica 17 aprile 2016

Voler esserci!


Sono le 20.30 di un lunedì sera e la giornata è stata impegnativa per tutti, ma forse vale la pena esserci.
Mi siedo un attimo ed osservo le persone sedute davanti a me. Mi guardano, poi guardano la mia collega, poi me, la slide di inizio corso e poi di nuovo me.  E io osservo loro. E mentre sorrido penso che è come vedersi allo specchio. Siamo riflessi.  Io qui e loro lì, ma solo poche ore fa io ero lì e i docenti di mio figlio qui a spiegarmi il suo andamento scolastico. E prima ancora io ero di nuovo qui, come educatrice, e i bimbi della scuola dell’infanzia lì. Molteplici punti di vista, diverse angolature da cui vivere e osservare le relazioni umane tra figure diverse, tra genitore e figlio, tra alunno e docente, tra formatore e genitore. E allora scorre la mia riflessione. Tutto questo essere o agire deve pur avere un senso, penso.
Punti di vista riflessi che cercano un senso nel reciproco agire, che danno un senso e che formano senso legando parole a significati e significati a gesti che tutti compiamo nell’arco delle nostre 24 ore, più o meno consapevolmente. Cosa conta allora se non il rendersi un pochino più consapevoli di queste dinamiche relazionali, se non comprendere ciò che differenzia l’agire dall’agire educativo, se non rendersi più responsabili delle proprie azioni come espressioni del proprio pensiero. Riflettere. Pensare. Scegliere. Agire.
Forse è già questo l’intento della formazione? Sì, perché penso che le persone che decidono di uscire di casa per andare a seguire una serata formativa per genitori si sono già poste delle domande. Hanno sicuramente letto, argomentato e hanno voglia di cercare risorse utili alla loro causa.  Quindi hanno un’idea nella testa o stanno cercando un’idea. Stanno cercando di fare chiarezza su dove vogliono andare con i propri figli. E allora forse sono qui per la voglia di rimescolare le carte, di guardare con occhi diversi o solo per cercare conferme.
E io, dal canto mio, sono qui per portare la mia visione pedagogica, i miei anni di lavoro sul campo in contesti diversi, la pluralità di sguardi educativi e di situazioni nelle quali si sono cercate e trovate possibili risposte e nelle quali mi sono trovata a osservare le relazioni. Sono qui per condividere esperienze, per accendere riflessioni, per aprire porte. Sapete? Non sono mai riuscita a leggere i testi in cui si danno risposte certe e soluzioni immediate e nemmeno mi interessano molto le mode educative, che reputo cicliche come quelle per l’abbigliamento, ma sono sicura che se scrivessi uno dei tanti nomi nobili della pedagogia italiana, Maria Montessori, e se citassi una frase tipo “l’adulto deve aiutare il bambino a fare da sè tutto quanto gli è possibile fare”, tutti direbbero certamente “Vero!”. Poi però, a conti fatti, nella pratica educativa quotidiana, molti di questi “vero!” si trovano ad allacciare le scarpe ai propri figli, a tagliare loro la carne, a raccogliere e  riordinare i loro giochi, a colorare i loro compiti, ad arrabattarsi fra i compiti non scritti e le verifiche non segnate, e potrei continuare oltre. E allora tutta la teoria pedagogico-educativa sfuma dinnanzi alle sfide della quotidianità. E io porto queste letture. E porto i miei perché. Perché? Forse perché è più facile. Forse perché è più veloce. Forse perché non ci si pone obiettivi. Forse perché non si vuole realmente esserci! Sì, forse è proprio questione di voler esserci!
La scorsa settimana, al termine di una serata di formazione per genitori, una mamma, parlando di scuola e di relazione educativa bambini-insegnanti, mi ha detto: bisogna voler esserci! E guarda caso, ieri sera a cena con un’amica che insegna filosofia al liceo, tra le altre frasi dette è spuntata proprio questa “Bisogna voler esserci!”.
Sì, ma che vuol dire?
Vuol dire che i bambini e i ragazzi hanno lo scanner incorporato. Hanno la capacità di mapparci dentro come nessun apparecchio super futurista è in grado di fare oggi. Significa che loro lo sanno se noi adulti “vogliamo esserci”. Significa che un genitore deve voler scegliere e deve voler fare la differenza nella relazione educativa col proprio figlio. Significa che quando vuoi esserci entri in una classe e fai la differenza, come educatore!
E’ questo! E’ la vicinanza educativa. Quella che spaventa perché non è autorità né amicizia ma è quella che rende molto sottili seppur non assenti i confini tra docenza e alunni, quella che accorcia le distanze di genere e di generazione, quella che permette di traghettare i bambini e i ragazzi ovunque, nel domani, nel futuro, nelle sfide impegnative e faticose, quella che insegna la vita al di là dei contenuti. Ma quella roba qui dove la si compra? Non si compra e non si vende. Quella roba qui si è e basta!

Essere educatore dentro all’essere genitore significa avere quella capacità empatica di sintonizzarsi sulle corde altrui per scovare le possibilità con cui costruire una relazione com-passionevole. Significa ascoltare e non sentire. Significa chiedere e cercar risposte. Significa vedere oltre. Voler esserci significa trasmettere ai bambini e ai ragazzi la propria passione per ciò che pensiamo, facciamo e infine diciamo. Agire da educatore significa credere fermamente che il nostro essere sia un punto fermo per loro. Agire nelle proprie idee, saperle esprimere e sostenere anche sbagliando, cadere e rialzarsi, chiedere scusa, chiedere aiuto, ammettere il nostro essere “finiti” ammettendo di non conoscere e cercando magari di scoprire insieme. Questo è ciò che i figli vogliono da noi. Vogliono che ci siamo. Che siamo lì con loro.

giovedì 7 aprile 2016

Desider-i-AMO

Ho deciso di riservarmi un attimo tutto per me e mi sono seduta davanti al computer. Qualcuno potrebbe pensare “che tristezza!”. Dipende dai punti di vista. Dipende, come sempre, da ciò che si desidera e ciò che si può fare. C’è chi pensa che per rilassarsi abbia bisogno di due giorni in una spa, chi di una passeggiata nella natura, chi sogna con ardore un’ora di divano e film e chi vorrebbe correre libero e senza vincoli. Così potremmo continuare. Ecco, il punto è questo: desiderare qualche cosa, desiderare di poterla possedere. Noi siamo la società del desiderio! Senza questo la nostra economia non funzionerebbe affatto. Dobbiamo costantemente desiderare per consumare e mentre consumiamo desideriamo già qualcos’altro e mentre consumiamo e desideriamo altro ci dicono che possiamo averlo, ci dicono che il mondo è nelle nostre mani e che non dobbiamo più aspettare. Possiamo avere tutto, subito, a poco prezzo e prima degli altri. Wow! Sono proprio rimasta l’ultima povera illusa che crede ancora che esistano le stagioni, che crede ancora che servano nove mesi di gestazione per poter generare un bimbo, che crede ancora che ci sia un tempo per ogni cosa. Ma niente paura! Arrivo a scuola e mi accorgo che la realtà mi da ragione…. E allora eccoli! I piccoli figli di questo mondo ben strutturato, unico, veloce, acquistabile in ogni sua forma e surrogato, competitivo fino all’eccesso e fagocitante. “Mamma voglio! Mamma dammi! Mamma compramelo! Se faccio questo tu mi compri questo, me lo hai promesso altrimenti lo dico al papà, alla nonna”

Chiudo le orecchie, sorrido, saluto e vado ad indossare il mio camice. Lo indosso con orgoglio tutte le mattine. E’ un camice che non ha colore, non ha forma, non ha marca e non ha prezzo… Il mio camice è la mia professionalità. Scendo in classe e rivedo i miei piccoli e mentre li osservo penso che loro, si, proprio loro che oggi hanno 5 anni, saranno a breve il mio datore di lavoro, il sindaco, l’assessore alle politiche sociali, il manager di confindustria e via così. E pensando questo vedo il mio camice di lavoro risplendere di nuova energia perché penso che devo, oltre ogni possibilità, tornare a seminare quelle idee vecchie (scusate si usa vintage!), lente, comunitarie, eque che la mia mamma e alcuni dei docenti che nella vita ho avuto il privilegio di incontrare, mi hanno insegnato. Penso che tra il desiderio e la sua consumazione immediata vi siano molte e molte cose da imparare. Penso che per primi noi adulti abbiamo il dovere di capire cosa sia giustamente desiderabile, cosa i nostri bambini desiderino veramente o cosa noi desideriamo per loro, cosa desiderino veramente e cosa invece stiano camuffando cercando di possedere un prodotto. Credo nuovamente che dovremmo riflettere sul nostro agire per comprendere che dietro piccoli gesti si seminano grandi cose che possono essere trampolini verso una nuova generazione più sostenibile ma possono essere anche zavorre che perpetuano un consumismo puro, dedito al possesso di beni, servizi e persone. Ecco, ho desiderato avere del tempo per me, per riflettere su alcune dinamiche che osservo nel quotidiano, ho potuto godere di questo tempo e sedermi davanti al computer è servito a questo scopo. Mi reputo una persona molto fortunata, posso desiderare e possedere il mio desiderio, sono consapevole che nella nostra piccola Terra non sono molte le persone che possono fare altrettanto e anche per questo devo impegnarmi nel mio piccolo per rendere il mondo un pochino migliore. 

sabato 2 aprile 2016

DICONO CHE...


Questo vuole essere il racconto di un mondo in blu. Di una visione che da ombra diventa luce. Perché ci si può divertire. Perché si ha il diritto di farlo. Perché vedere oltre ci permettere di vedere e costruire anche quando tutti dicono che non si può. Anche quando ti fanno credere che non si possa. Ma tu lo sai che non è cosi e alla fine invece scopri che si può.
M. non parla. Lui è grande, ha sedici anni, ma non parla. Non ha mai parlato. Dicono che abbia una forma gravissima di autismo e questo ha compromesso le sue funzioni comunicative. Anche quelle psicomotorie e cognitive sono compromesse. Cammina in modo goffo e non riesce a tenere le posate per mangiare. Ha molte stereotipie. Si dondola per la maggior parte del tempo; emette dei suoni gutturali intermittenti e spesso, quasi sempre, lancia gli oggetti. Dicono che io sarò la sua educatrice. Quando conosco M. cerco di nascondere la mia preoccupazione alla sua mamma. La sua mamma mi racconta la sua storia, con un dolore lacerante negli occhi nascosto da un enorme sorriso accogliente. La sua mamma è una donna speciale e meravigliosa. E’ una donna competente, combattiva, coraggiosa. M. è il primo di quattro figli. Lei sorride sempre anche se so che, dentro, il suo cuore è spezzato. Mi racconta di aver provato tutte le forme di comunicazione aumentativa possibili ma lui non ha mai collaborato e allora lei alla fine ha deciso che andava bene così. Lei chiede a M. di fare delle cose e lui le fa. Gli chiede di andare in bagno perché la vasca è pronta e lui va, si siede e aspetta di immergersi nell’acqua calda. Magari nel frattempo, strada facendo, ha trovato un oggetto abbandonato sul tavolo, lo ha preso e lo ha lanciato. Lei lo rimprovera e lui fa qualcuno dei suoi versi gutturali. Magari ride. Io li osservo. La casa di M. è fatta su misura per lui. Non ci sono pericoli in giro. Non ci sono soprammobili che lui può lanciare o piccoli oggetti che può inghiottire (beh sì, lui a volte mette in bocca le cose, le mastica e le deglutisce). La mamma mi racconta e mi mostra la stanza per M. Un pavimento di linoleum azzurro morbido, un tappeto elastico per saltare, pupazzi o palle morbide da lanciare. Un posto tutto suo dove può stare in sicurezza. Anche da solo se la mamma ha da fare. E da fare in una casa con quattro figli c’è sempre. Io le sorrido e la ascolto mentre racconta di lui. Ma dentro di me io sono molto preoccupata. Cosa farò con M. per un intero anno scolastico? Ai miei occhi, adesso come adesso, mi sembra impossibile costruire un progetto educativo. Su cosa dovrei lavorare? Sulla comunicazione? Sull’educazione alimentare? Su cosa? Questi pensieri mi tormentano a pochi giorni dall’inizio della scuola. Mi è già capitato di lavorare con bambini colpiti da patologie molto gravi. Ma dicono che M. sia un caso complesso. Difficile. Dicono tante cose di lui. Dicono che lui non possa comprendere il linguaggio verbale nemmeno nelle sue forme semplici. Dicono che non acquisirà mai nessuna autonomia. Dicono di fare quello che posso. Io ascolto e molte delle cose che sento mi fanno un pò paura. Ma questo non lo dò a vedere. La paura non mi ha mai fermata e non  mi fermerà ora. Ascolto. Penso. Rifletto. Cerco soluzioni. E alla fine decido.
Poi la scuola inizia e io resto sola con M. E allora penso a quello che ho deciso. Ho deciso che proverò a fare tabula rasa di tutto quello che dicono. Proverò a vedere da sola. Proverò a capire, a vedere oltre se possibile. Ci proverò. D’altra parte abbiamo un lungo anno scolastico insieme da vivere. Osservo M. Lui a volte ride da solo. Ride di gusto. E io rido con lui. Altre volte piange e io non so perché. Non so se sta male. Non so se è triste. Non riesco a capirlo e lui non riesce a dirmelo. Però capisco che gli piace la carta, soprattutto quella dei giornali. Gli piace strapparla a coriandolini. Oppure a striscioline da impugnare come un mazzo di fiori da scuotere davanti alla faccia per poterci soffiare sopra. Gli piacciono gli abbracci e gli piace tirarmi i capelli. Lui vuole che io li tiri a lui. Piano piano. Questo lo fa ridere. Quando è in vena impugna i pastelli e fa dei cerchi su un foglio. Poi lancia il pastello. Lanciare le cose è uno dei suoi momenti migliori. Afferra, guarda e lancia. Occhiali da sole, bicchieri di plastica, pacchetti di fazzoletti. Lanciare e strappare. Lanciare e strappare. Mani. Mani e piedi. Mani, piedi e corpo. Luce…ecco quello su cui lavorerò. Ecco come si intitolerà il mio progetto educativo di quest’anno “Dalle mie mani….al mio corpo”. Un percorso sensoriale da toccare, esplorare, lanciare. Un percorso dal solido al liquido. Vaschette piene di ceci, lenticchie, farina, farina bagnata, tempera, acqua…lasceremo la nostra impronta. Faremo un sacco di fotografie. E poi ricostruiremo il nostro percorso insieme.
Come piace a M. mettere le mani nelle cose! A volte ha un po’ paura. Ci sediamo sul tappeto blu e mettiamo la bacinella fra noi. Gli chiedo di darmi la mano e lui me la dà. La metto delicatamente fra i ceci e lui la ritrae subito. Ha paura. “No, stai tranquillo, è tutto apposto! Guarda!”  e gli mostro una manciata di ceci che poi faccio cadere dall’alto. Fanno rumore. Lui guarda con la coda dell’occhio, mentre si dondola e lancia qualche verso. Lo rifaccio. Allora M. allunga la mano e me la porge e fa un verso. Mi sta dicendo di metterla nei ceci. Io ne prendo un po’ e li faccio cadere sulla sua mano. Sorride. Poi fa di nuovo il verso e allunga la mano. La prendo e la metto nella vaschetta. Il nostro percorso ha inizio. Un percorso fatto di cose da toccare. Di grandi fogli appesi alle pareti da dipingere con le mani, a grandi cerchi. E di altri da mettere a terra per camminarci sopra coi piedi impiastricciati di colore blu. Una strada da percorrere insieme. Un percorso fatto di farina da lanciare. Di carta colorata da strappare….”Oh mamma, abbiamo fatto un disastro…” rido e mi guardo in giro. Adesso M. sa gettare la carta appallottolata nel cestino. Mi aiuta a riordinare. “Per favore M., buttala nel cestino”. Si alza, cammina col suo modo goffo verso il cestino e la butta. A volte ci prova ancora a lanciare il cestino e io faccio la faccia arrabbiata ma lui è già andato a sedersi e a strappare altra carta. Abbiamo fatto un grande lavoro insieme. Abbiamo preparato un bel dvd da regalare alla mamma che si è emozionata e ci ha detto che siamo stati bravissimi. Poi abbiamo fatto un altro anno insieme. Abbiamo creato un bel calendario da appendere e da regalare. Due anni di piccoli grandi cose, partite dal nulla. Se ho imparato cos’è l’autismo? Certo che no! Per impararlo dovrei conoscere le migliaia di bambini che ne sono affetti. Dovrei conoscere le loro storie, le loro caratteristiche, le loro possibilità. E forse ancora non ne saprei nulla. Ma una cosa di sicuro l’ho imparata. E’ importante e utile armarsi di conoscenza, di strumenti, di abilità perché fanno parte del nostro bagaglio di educatori. Ma altrettanto importante è sapersene spogliare al momento giusto per essere liberi di guardare, di ascoltare, di osservare. Per essere liberi di tornare alle origini. Per sapersi rimettere in gioco. Per costruire. Per non lasciare che siano sempre gli altri, i preconcetti, le diagnosi, la patologia a dire che,  ma per diventare noi qualcuno capace di scrivere e raccontare una storia diversa.
Questo è il racconto di una sola, singola storia senza nessuna pretesa di generalizzazione. E' il racconto di un punto di vista, di un percorso che abbiamo vissuto con luci e ombre, con difficoltà e sorrisi. Le storie sono tantissime. Non vogliamo portare tristezza ma luce. Speriamo di portarla. Questa storia vuole parlare di questo. Essere operatori e non farsi fermare da niente. Cercare sempre di vedere più in là del nostro naso. Di quello che tutti dicono. Entrare in punta di piedi nelle storie, conoscerle e dare il proprio contributo personale prima che professionale. Senza buonismi o falsi moralismi. Persone con persone. Vite con vite. E costruire. Ci siamo davvero divertiti in questo percorso. Abbiamo pasticciato, dipinto, creato, distrutto, preso e lanciato. Ho visto gli occhi di un ragazzo sorridere.