Questo blog è scritto a quattro mani. Quando leggerete troverete l'essenza di noi. Leggerete la nostra esperienza di vita, come mamme e come educatrici. Questo blog è la nostra visione pedagogica. Questo blog siamo noi! Il nostro motto è: L'ESPERIENZA DEGLI EDUCATORI AL SERVIZIO DEI GENITORI! Aiutateci a rendere speciale questo blog con le vostre condivisioni e i vostri commenti...

sabato 27 febbraio 2016

Un legame che dura per sempre

La prima cosa che le persone cercano di capire quando nasce un bambino è a chi assomiglia. Lo osservano, scrutano il suo sguardo, la forma del naso, quanto sono lunghi i piedi e perfino il colore degli occhi. Cercano di carpire il legame fisico fra il bambino e i suoi genitori. Qualcuno dice che assomiglia alla mamma, qualcun altro al papà, altri ancora azzardano alla nonna o allo zio. Trovano somiglianze anche quando non ci sono. Ma c’è un legame, molto più profondo, che ogni bambino ha con le persone che lo hanno generato. C’è un legame fatto di emozioni, vissuti, bagagli esperienziali che non possiamo riconoscere immediatamente nei bambini, che si nasconde dentro di loro e che li accompagnerà per tutta la vita. E’ qualcosa che c’è, qualcosa che si trasmette, da genitore a figlio. Su questo legame profondo costruiamo le nostre relazioni. Ciò che siamo è visibile in ciò che i nostri figli sono e in ciò che i nostri genitori erano. Il bambino che siamo stati, il figlio che eravamo è l’origine del nostro essere genitore. E’ qualcosa di difficile da spiegare e ancor più difficile da comprendere. E’ qualcosa che va molto oltre la somiglianza fisica. Dicono che nasciamo con una dote, quella genetica, che ci viene trasmessa dai nostri genitori naturali. E poi cresciamo relazionandoci con l’ambiente che ci circonda, con i care givers, le persone che si prendono cura di noi e che entrano in relazione con la nostra dote, che la plasmano dando origine a noi. Siamo esseri biologici e esseri sociali allo stesso tempo; ci modifichiamo e ci plasmiamo creando legami che a nostra volta trasmetteremo ai nostri figli aggiungendo dote a dote. Tenere conto di tutto questo, educando i nostri figli, significa approfondire la conoscenza di ciò che siamo, significa ritrovare le nostre origini per comprendere le nostre scelte genitoriali, significa farsi domande sul sé per darsi risposte sull’altro da sé. Ignorare questa cosa diviene educare senza una radice e senza una rotta, travolti dagli eventi, travolti da ciò che eravamo che senza briglia può schiacciare ciò che siamo. Conoscersi e conoscere i propri legami sociali è importante per ritrovare la rotta. A volte alcuni genitori mi raccontano le loro fatiche a comprendere i propri figli, le loro paure nell’affrontare una distanza che non riescono a decodificare (parlo soprattutto degli adolescenti). Ma accorciare questa distanza non è impossibile. Serve determinazione e introspezione. Fermarsi come genitori e guardarsi allo specchio cercando di capire chi siamo, che figli siamo stati, che genitori abbiamo avuto e che genitori vogliamo essere è il primo passo verso la comprensione e il cambiamento. Colmare la distanza è prima di tutto coprire il divario che c’è fra quello che siamo e quello che potremmo essere. E’ importante incontrarsi, padre e madre, e ritrovare un orizzonte comune esplorando la strada già percorsa continuando però a guardare avanti perché non possiamo cambiare il passato ma possiamo scrivere un futuro diverso. Il cambiamento è possibile solo grazie alla conoscenza. Non perdiamo la speranza, non smettiamo di lottare, fermiamoci e ritroviamoci per costruire coi nostri figli un legame solido ed equilibrato che duri per sempre, di dote in dote, di dna in dna, di vita in vita.

mercoledì 24 febbraio 2016

Con un poco di zucchero...

Sono un’educatrice e lo sono ormai da sedici anni. Ho lavorato in scuole di ogni ordine e grado ma anche in attività sul territorio e in progetti extrascolastici. Ho fatto tante esperienze, ho osservato tanto e altrettanto ho pensato e a una conclusione certa sono arrivata di sicuro: insegnava bene Mary Poppins che a volte basta davvero un poco di zucchero per fare sorridendo. Ma spesso ce lo dimentichiamo. Corriamo corriamo corriamo. Non sappiamo esattamente dove stiamo andando o magari pensiamo di saperlo ma in realtà ci siamo persi ancora prima di partire e continuiamo comunque a correre. Dimentichiamo il vero succo della questione. Dimentichiamo per cosa stiamo correndo, corriamo e basta.

Vivo il mondo della scuola dall’inizio della mia esperienza educativa e anche qui il problema è lo stesso. Correre e correre più veloci degli altri. Gli alunni devono essere veloci, rapidi, attenti, bravi, seduti, educati, capaci, responsabili, comunicativi…sempre. Gli insegnanti devono essere preparati, dinamici, orientati agli obiettivi, efficaci ed efficienti, comunicativi, utili…sempre. I genitori devono essere bravi educatori, attenti, preparati, efficaci ed efficienti, comunicativi, impegnati e obbedienti…sempre. La realtà però è molto diversa. La realtà è fatta di persone che sbagliano, di persone imperfette, che crescono, che cambiano, di persone che si incontrano e si scontrano. La realtà è fatta di tanta fatica ma anche di aspettative reciproche puntualmente deluse, ognuno rinchiuso nel proprio personale punto di vista. E in tutto questo io penso ai bambini e ai ragazzi. Rallento, mi siedo in disparte e cerco soluzioni. Ci penso mentre cucino, mentre pulisco casa, mentre guido. Mi incarto nei miei pensieri e so che la soluzione è dietro l’angolo e la cerco. Almeno ci provo. Cerco quel poco di zucchero che renda la vita scolastica dei ragazzi un po’ più dolce, un po’ più leggera. Cerco di arrivare agli obiettivi percorrendo una strada diversa, alternativa. Non è facile ma nemmeno impossibile. Il segreto sta nel capire su chi possiamo contare, nel cercare e vedere le risorse conoscendo i limiti ma senza lasciare che ci travolgano. La scuola ha dei limiti? Sì, tantissimi. Ma ha anche risorse. Persone soprattutto. Persone a cui possiamo ricordare quanto è bello vedere gioia ed entusiasmo negli occhi dei ragazzi, quanto è bello insegnare divertendosi con loro pur senza dimenticare che l’apprendimento è anche impegno, costanza, determinazione, ordine. Persone a cui possiamo dire che con con un pizzico di zucchero in più l’impegno non sarà sofferenza ma fatica ripagata, tempo ben speso, gioia di imparare. Forse ci sono persone che non arriveranno ma a questa consapevolezza ma so che ce ne sono altre a cui basta un guizzo, un piccolo incoraggiamento e il loro punto di vista potrebbe cambiare. Questo è il mio pensiero di oggi. Un pensiero dedicato a chi crede ancora che si possa cercare e trovare la gioia di stare insieme e di far crescere curiosità e conoscenza nei bambini e nei ragazzi ricordandosi che sono loro il nostro futuro. Perché lo so, ne sono sicura, si può fare….

domenica 21 febbraio 2016

My BIG pet


"Grande, immensamente grande nella dolcezza, nella disponibilità, nell’affetto, nel calore, nel senso di protezione e comprensione che solo tu sai darmi!"
A chi rivolgo queste parole? Al mio gatto, al mio cane, alla mia cavia peruviana…
Da piccola sono cresciuta insieme a cane e gatto e da grande, non appena ho avuto la mia casa, i gatti sono sempre stati una preziosa compagnia. Adoro gli animali e sì, faccio parte di quelli che d’estate cercano di spiegare alle mosche che devono uscire dalla finestra. Gli unici animali che non sopporto sono le zanzare, abbiate pazienza!
Amo gli animali perché ci donano amore incondizionato, si prendono cura di noi, della nostra felicità e soprattutto della nostra tristezza, dei nostri bisogni più profondi e segreti. E la cosa meravigliosa è che noi spesso non ce ne rendiamo conto. Amo gli animali perché quando li vedo insieme ai bambini assisto a uno spettacolo della natura. Li guardo e rifletto. Penso al meraviglioso rapporto bambino-animale e a ciò che si impara vivendo insieme a loro.
Il piccolo grande Pupi
A scuola osservo quello che succede quando la nostra cavia peruviana incontra i bambini e penso alle loro varie reazioni: bambini che non toccano o che hanno paura, bambini che immergono il viso nel suo pelo, bambini che smettono di piangere appena la vedono, bambini curiosi, bambini che fanno mille domande! Li osservo e vedo quanta possibilità educativa ci sia nel rapporto con l’animale. Penso a quanti racconti segreti gli animali conoscono dei nostri bambini, penso a quanto mondo fantastico condividono. Penso al senso di cura che si impara stando al fianco di un animale. Penso a quanta psicomotricità, manipolazione, attività plurisensoriale, relazionale-affettiva e alle svariate esperienze che si possono fare e che spesso si cercano nelle terapie (non me ne vogliano gli specialisti!). Credo fermamente che un bambino riceva molto nel crescere accanto ad un animale. Certo, non deve mai mancare un buon percorso educativo alla base. Entrambi vanno educati al rispetto reciproco. Gli animali non sono giocattoli ma esseri viventi che provano paura e gioia, che hanno bisogno di cure e di rispetto della loro essenza di animali. Gli animali non sono pupazzi da far scendere dallo scivolo o da mettere nel passeggino. E anche da questo un bambino ha da trarre un grande insegnamento: non è il MIO mondo nelle mie mani, ma le mie mani che si prendono cura di una parte di mondo! Così SI impara l’attesa, la pazienza, l’osservazione, la comprensione dei linguaggi non verbali.SI Impara a non essere autocentrati, ad ascoltare e cogliere i bisogni di un altro essere vivente. Il lavoro, ma soprattutto la vita condivisa con gli animali, possono insegnarci e insegnare moltissimo.
Sapete, a fine anno scolastico i grandi della scuola dell’infanzia ricevono un diploma e quest’anno pensavo proprio che il diploma dovrebbe essere dato anche alla nostra cavia.
“A Pupi con affetto, grazie per tutte le coccole che ci hai regalato!”.

 Grazie Pupi a nome di tutti i bimbi della scuola che hanno potuto avere la fortuna di conoscerti! 

giovedì 18 febbraio 2016

Amici per sempre!!!

L'altra sera ho trascorso una piacevolissima serata in compagnie di Amiche di lunga data. Ci conosciamo ormai da 25 anni. Quasi non si riesce a credere che sia passato così tanto tempo. Le nostre vite corrono veloci  fra impegni, famiglie, lavoro e tutto il resto e per questo abbiamo poche occasioni di vederci. Ma ognuna di queste occasioni è una grande gioia. E’ un momento per ritrovarsi, ritrovare noi stesse e rivedere ognuna negli occhi dell’altra ciò che eravamo scoprendo ciò che siamo diventate. Abbiamo chiacchierato tantissimo. Ci siamo raccontate e ascoltate. Tanto che alla fine la cameriera del ristorante ci ha fatto capire che era ora di chiusura posizionando una tovaglia pulita accanto al nostro tavolo, con discrezione. Avrei voluto che non fosse così tardi per poter continuare a parlare con loro ma ci siamo promesse un’altra cena a breve. Alla fine, quando sono tornata a casa, ho pensato all’amicizia. Cos’è l’amicizia per me e cosa vorrei che fosse per i miei figli? Amicizia è rispetto e accoglienza reciproca. E’ ascoltarsi e comprendersi. E’ condividere, ma anche no. E’ accettare ciò che sono i nostri amici e per loro accettare ciò che siamo noi. L’amicizia cresce insieme a noi, matura, cambia, si modifica. Ma dentro a quell’amicizia ritroveremo sempre una parte di noi. Possiamo avere diversi amici, oppure solo uno o due. Ma ogni amicizia sarà unica come lo sono le persone che la condividono. Ogni amicizia avrà pezzi di storia trascorsa insieme, esperienze vissute, emozioni investite. Ogni amicizia ci avrà regalato qualcosa. Ma quanto è difficile scegliere gli amici? Chi non ha commesso errori in questo e non è stato ferito o deluso almeno una volta? E’ capitato e potrebbe capitare. Anche ai nostri bambini, nonostante noi speriamo sempre che non debba mai succedere. Ma sappiamo che potrebbe capitare, che potranno avere amici che li deluderanno o che li faranno soffrire. Questo li renderà forti, capaci di scegliere. Così come li renderà forti una sana amicizia, costruita col tempo, tra litigate e risate, fra giochi e pomeriggi passati a fare compiti e merende, fra passeggiate e gelati al parco. Anche questo li aiuterà a scegliere. Scegliere amici come quelli che li han resi felici. La potenza del legame di amicizia è dato dalla scelta. Possiamo aiutare i nostri figli a imparare a scegliere, a riflettere, a capire. Possiamo insegnare loro ad ascoltare e a chiedere di essere ascoltati. Possiamo dare consigli e spiegazioni. Ma non possiamo dare loro l’esperienza. Proveranno, sbaglieranno, e noi saremo lì per consolarli e aiutarli a proseguire e a non perdere la fiducia. Li aiuteremo a coltivare le loro amicizie. Ricorderemo loro che l’amicizia sta nella reciprocità. Credo tantissimo in questo. Credo nella sincerità e nella fedeltà fra amici. Credo nel rispetto. Credo che l’amicizia vera esista, anche nella diversità, anche quando i nostri amici ci fanno arrabbiare. A volte riusciamo a dirglielo, altre volte no. Ma l’amicizia resta. Amicizie con intensità diverse ma amicizie che ci arricchiscono. Amare se stessi significa anche concedersi di vivere profondamente l’amicizia, con le gioie e coi dolori. E proprio adesso, in questo momento della mia vita, posso dire di aver avuto il prezioso dono dell’amicizia e posso promettere di fare in modo di non perderlo, di non lasciare che sfugga. Si può essere vicini o lontani, ma quello che conta veramente è esserci! Questo è il grande insegnamento che dovremmo dare ai nostri figli: ESSERCI!

martedì 16 febbraio 2016

Il segreto di un adolescente

Lavoro con i preadolescenti e gli adolescenti fin dall’inizio della mia carriera educativa. Ormai sono passati sedici anni e i bambini del 2000 sono diventati uomini e donne oggi: laureati, viaggiatori, sposati, lavoratori. Persone a tutto tondo. Indipendenti e sicuri. Almeno in tanti. Qualcuno di loro è ancora fra i miei contatti. I più affezionati, quelli con i quali ho costruito legami più solidi. All’epoca avevo 23 anni. Sì, lo so, non si svela l’età di una signora ma in questo caso una piccola confessione ci sta. Ho imparato tanto da tutte le esperienze vissute con i ragazzi e voglio svelarvi un segreto: gli adolescenti non sono dei mostri! Non lo sono per niente. Sicuramente non lo sono i ragazzi che vanno bene a scuola, che si comportano bene quando escono, che sono gentili e responsabili. Ma non sono mostri nemmeno quelli che a scuola non ci vanno poi così volentieri, che magari si tagliano i capelli a “spazzolino da denti”, che tengono i pantaloni a “gironatica”. Non sono mostri. Certo, ammetto che possono avere atteggiamenti provocatori e indisponenti, a volte ci mandano su tutte le furie, e spesso, spessissimo, ci lasciano disarmati. Ma… non sono mostri. Quasi tutti sono ragazzi soli, inascoltati, alla ricerca continua di qualcosa. Non sanno nemmeno loro cosa cercano. Forse cercano qualcuno che li guardi negli occhi e gli dia una possibilità. Forse cercano qualcuno che creda in loro e abbracci la loro causa. Forse cercano soltanto uno sguardo di comprensione e supporto. Ogni giorno li osservo, li guardo relazionarsi tra loro, con gli insegnanti, coi loro genitori e cerco di ascoltarli. Ascolto quello che dicono e vedo quello che fanno. E mi faccio domande. Mi chiedo ad esempio perché noi adulti, che avremmo dovuto dare loro ascolto, amore, fiducia, comprensione e allo stesso tempo metterli di fronte ai loro limiti, fargli sperimentare il fallimento, lasciarli cadere e aiutarli a rialzarsi, li abbiamo lasciati soli. Perché sono cresciuti soli? E penso, con dispiacere, che sia proprio la solitudine il segreto degli adolescenti arrabbiati. E allora penso che dovremmo ricominciare ad ascoltarli. Dovremmo farli sentire meno soli. Non giudichiamo i ragazzi solo dall’alto delle nostre cattedre. Cambiamo il nostro punto di vista, parliamo con loro faccia a faccia, occhi negli occhi, persona a persona. Se siamo educatori e iniziamo un cammino educativo con loro possiamo vincere o possiamo perdere, ma anche quando perdiamo la nostra vittoria è averci provato. E’ il fatto di non aver gettato la spugna. Noi educatori non siamo onnipotenti, non abbiamo la capacità di guarire tutte le ferite e non siamo in grado di salvare il mondo. Ma se smettiamo di crederci allora è bene che smettiamo anche di fare questo mestiere. Accettare le sconfitte è una parte importante del nostro intervento, ma provare tutte le strade possibili e ribaltare i punti di vista è un nostro dovere. Dobbiamo ricordarci che ogni ragazzo è unico e irripetibile, con la propria storia, il proprio bagaglio di esperienze, le proprie fatiche e i propri dolori. Guardiamoli cambiando prospettiva. Fuori dal gruppo. Scopriremo nelle loro anime una fragilità che saprà disarmarci. Chi ha seguito questo consiglio mi ha riportato grandi soddisfazioni. Colleghi e amici meravigliosi che mi hanno detto “avevi ragione. Gli ho parlato a quattr’occhi e si è aperto un mondo. E’ un altro ragazzo”. Ma è un lavoro duro, lungo e faticoso. E non basta una chiacchierata. Dobbiamo tenerli agganciati. Ricordarci di loro per primi e non per ultimi. Guardarli dritti negli occhi proprio quando ci accorgiamo che qualcosa non va e proprio dentro ai nostri occhi rileggeranno le parole che ci siamo detti tante volte. Non abbandoniamo i ragazzi che non hanno avuto la fortuna di costruire una valigia di attrezzi per la sopravvivenza durante la loro infanzia. Non abbandoniamo chi è rimasto troppo a lungo inascoltato. Proviamo. Educare è un lavoro che inizia dalla tenera età. Ed è soprattutto un lavoro di squadra. In tutto questo anche noi genitori abbiamo una grande, grandissima responsabilità. Non possiamo chiedere ai nostri figli di parlarci o di ascoltarci o di rispettarci se in tutti gli anni della loro infanzia non abbiamo mai parlato con loro, non li abbiamo ascoltati, non li abbiamo rispettati, o perlomeno non ci abbiamo mai provato. Lo sappiamo tutti che il mestiere del genitore è il più duro e faticoso del mondo. Le soddisfazioni arrivano solo col tempo. Non basta il ciclo di un maggese a farci annusare il profumo della vittoria. Dobbiamo seminare, curare, innaffiare, proteggere, correggere, custodire per tanto tanto tempo prima di veder sbocciare un fiore. Fare il genitore, fare l’insegnante, fare l’educatore, non è difficile per la mancanza di sonno, di tempo o di risorse, è difficile per l’attesa che questo richiede. Dobbiamo rallentare. Fermarci e far salire sul treno della vita anche quelli che ci turbano, ci disturbano, ci indeboliscono perché forse proprio loro portano con sè il fiore più prezioso. Si può fare! Possiamo farlo! Non lasciamo che i nostri figli diventino un segreto incomprensibile ai più. Diamo loro gli strumenti per passare attraverso la fase adolescenziale e poterne uscire illesi.. Insieme vinceremo o perderemo ma alla fine sapremo di non aver lasciato i loro segreti dentro a uno scrigno senza chiavi!!!

domenica 14 febbraio 2016

Lo sguardo educativo

L’altro giorno il mio “bimbo” ha compiuto 14 anni. Proprio così, 14! E in questo giorno speciale io ho ricevuto un bellissimo regalo! Semplice e allo stesso tempo emozionante. Un messaggio che diceva più o meno così: “Ciao, mi ricordo ancora quel momento in cui ci siamo incrociate in sala parto”.

Io trentenne, scorpione e al primo figlio. Lei trentenne, scorpione e alla prima figlia: Anna e Marco come, la canzone di Dalla. Due donne sconosciute che condividono il momento più importante della loro vita, un momento di trasformazione radicale. Due sguardi intensi, poche parole, eppure un legame che resta immutato nel tempo anche dopo anni di silenzi. Come si spiega questo speciale incontro?
Sono i nostri occhi. In molti li chiamano lo specchio dell’anima. Uno strumento assolutamente raffinato, evoluto e tecnologico al contempo. Hanno un potere che le parole non conoscono. Con essi si creano le relazioni fondamentali del nostro essere, senza le quali non siamo nulla.
Noi siamo relazione con e nello spazio, con e nella natura, insieme agli altri esseri viventi.
Ricordo come fosse ora le parole dell’ostetrica: “guardalo!”. Sembrava più un imperativo che un consiglio ma, in quel momento in cui la vita mi aveva travolta, l’ordine è arrivato perentorio e ho obbedito. È stato un secondo, uno sguardo. Ma in quello sguardo c’era tutto.
Ed in futuro, occhi negli occhi, lui è sempre stato la mia guida. Mentre lo nutrivo, mentre giocavo con lui, mentre facevamo il bagno, mentre lo rimproveravo. Gli occhi che guardano il mondo con il naso all’insù, gli occhi che si portano all’altezza del bambino per guardare il mondo dal suo punto di vista, gli occhi che pian piano lo seguono a distanza mentre lui se ne va solo per la sua strada. Sono gli stessi occhi che mi permettono di riconoscerlo tra la folla e con i quali ci capiamo senza parlare, ora che il mio “bimbo” non è più così bimbo.
Questa è l’essenza di ciò che credo sia un rapporto educativo. È un legame forte. È il legame tra due persone. Un legame così intenso da potersi intendere senza parlare. Questo è il segreto dell'affetto che mi unisce a quella donna allora sconosciuta. Ciò che ci ha accomunate è stato lo sguardo. Ognuna di noi era ormai mutava radicalmente, ma insieme osservavamo le stesse cose. Una vicinanza unica.
Ecco! Questo è il mio personale modo di essere un educatore, come madre e come operatore.
E’ buffo perché non mi ero mai soffermata a riflettere su queste cose. Forse le avevo date per scontate ma le mamme dei bambini con i quali lavoro mi hanno fatto notare come tra me e i bimbi ci sia questo forte legame di sguardi. L’affetto di sguardi condivisi, di cammini condivisi, di mete condivise. In tutte le professioni si indossano abiti o si utilizzano strumenti particolari e le persone riconoscono la professionalità anche per questo. I miei abiti non indicano nulla. Io non possiedo la valigetta degli attrezzi. Io non posso essere riconosciuta se non per gli strumenti più potenti ed efficaci del nostro corpo: gli occhi.



La lepre o la tartaruga

Mentre sono in macchina e osservo il paesaggio invernale che mi circonda, ho l’opportunità di starmene tra i miei pensieri e così mi tornano in mente alcuni discorsi che mi è capitato di ascoltare mentre facevo la spesa oppure all’uscita da scuola o in altre occasioni casuali. Spesso questi discorsi trattano la questione dei figli.
Risultati immagini per lepre e tartarugaCiò che mi colpisce, la maggior parte delle volte, è la quantità di lamentele che i genitori esprimono riguardo alla difficoltà di far fare diverse cose ai propri figli perché i figli non ascoltano, non si concentrano, non ci mettono la testa, non ci mettono il tempo... Allora inizio a riflettere e penso ai bambini quando sono piccoli, ma intendo proprio piccoli, durante il primo triennio di vita. E penso a come crescono.
E così noto come sia curioso che la maggior parte dei genitori, quando i bambini sono in questa fase delicatissima della loro vita in cui si fissano i primi apprendimenti, si prodighino a sottolineare come il proprio bambino abbia “imparato velocemente” a fare una determinata cosa, come sia “veloce” nel farla e come sia passato “velocemente” da un apprendimento a quello immediatamente successivo. Poi penso a come gli stessi genitori si sforzino di far fare ogni cosa ai propri bambini prima di tutti gli altri, anche sostituendosi a loro, se serve. Penso, ad esempio, a come i bambini vengono forzatamente tenuti in piedi pur non avendo ancora nessuna capacità, nè celebrale nè fisica, per affrontare la vita da bipede. Oppure penso a quanto velocemente vengano addestrati all’uso delle nuove tecnologie, con grande soddisfazione di chi li vede maneggiare abilmente un telecomando, un tablet o altro. Penso a come vengano fatti passare rapidamente da un'attività all'altra, da un gioco all'altro, da un luogo all'altro. Penso a come vengono catapultati rapidamente nella nostra dimensione caotica, a quante volte non siamo capaci di aspettare, di aspettarli. E allora penso al nocciolo della questione: LA VELOCITA’. Arrivare per primi, non importa per quale fine e soprattutto con quale mezzo, l’importante è arrivare primi!
E via così negli anni a venire: i primi al corso di nuoto o di canto, i primi in inglese, i primi a scuola, i primi e basta!
VELOCI, di corsa: prima degli altri ad imparare, primi ad arrivare.
La riflessione che nasce spontanea quindi è evidente: la velocità aiuta realmente a crescere? E in che modo?
Se il nostro organismo è strutturato per imparare a camminare solo quando tutte le articolazioni del nostro corpo saranno in grado di sostenerlo senza fatica e quando, nel frattempo, il nostro cervello avrà appreso sufficienti informazioni per interpretare il mondo con la visione di un bipede, perché noi ci ostiniamo ad anticipare questo momento? E cosa succede facendolo? Cosa insegniamo realmente ai bambini attraverso la velocità? Siamo sicuri che la velocità sia realmente l’unica via per ottenere i successi in così tanto ambiti?
E poi, quando i bambini saranno cresciuti e servirà tempo per fare tante cose, come ci giustificheremo con loro? Servirà tempo per leggere, tempo per studiare, tempo per riflettere, tempo per attendere. Servirà tempo per crescere, maturare e allora diremo loro che sono troppo piccoli, troppo bambini, troppo immaturi. E modificheremo le nostre aspettative, le nostre richieste e le nostre critiche. Diremo loro “possibile che non sei capace di stare fermo ad aspettare? Possibile che non riesci a concentrarti? Possibile che devi avere tutto subito?”.
Ci sono apprendimenti che sono legati a ciò che si fa come imparo a tirare un pallone in porta. Ma ci sono altri apprendimento, ben più profondi  e articolati, che necessitano di tempo e il tempo è una faccenda molto personale, senza paragoni, senza corse a chi arriva prima perché alla fine, lo scopriremo, c’è un tempo per ogni cosa!

La fatica di fare fatica!

Nascere non è una cosa semplice. Parte da un 


bisogno, quello del nostro bimbo di emergere, di fuoriuscire, di venire al mondo. Nasce dalla spinta ad andare altrove, al di fuori. Il nostro compito, in quel momento è quello di metterci totalmente a sua disposizione, attraverso il nostro corpo, con la nostra forza e con tutto l’aiuto del nostro spirito. In quel momento ci dobbiamo mettere in ascolto. Dobbiamo ascoltare il nostro corpo e il nostro bambino. In quel momento ci dobbiamo mettere in attesa. Dobbiamo aspettare la sua decisione. Dobbiamo aspettare le spinte del parto per poterlo aiutare. In quel momento sappiamo che non è una nostra decisione. Non scegliamo noi quando le spinte debbano arrivare. Però possiamo prendere un’altra importantissima decisione: la nostra decisione sta nel volerlo aiutare nel momento in cui LUI ci chiede di farlo. E’ un lavoro di squadra in cui ognuno fa un passo ma nessuno calpesta l’altro. In quel preciso momento, nel momento della nascita, il bambino vive quindi un’opportunità. L’opportunità di scegliere. L’opportunità di andare oltre. E da quel momento inizia un nuovo viaggio in cui sarà accompagnato da adulti che si prodigheranno in sforzi educativi e didattici per renderlo una persona capace di affrontare il mondo in perfetta autonomia. Questo è ciò che accade, o che perlomeno dovrebbe accadere, perché osservando attorno a me il mondo della scuola, di ogni ordine e grado, mi capita sempre più spesso di incontrare bambini rinunciatari. Sono quelli che rispondono “non riesco, io non sono capace”. Sono quelli che aspettano che l’adulto si sostituisca a loro. Mi si riempie il cuore di tristezza osservando la loro rinuncia alla scelta. Allora mi chiedo “perché un bambino all’età di 4 anni decide già che non vuole provare? Perché non vuole lottare per raggiungere un obiettivo? Qual è il meccanismo educativo che li porta a questa decisione? Cosa ha fatto sì che il bambino abbia scelto di rinunciare?”. E mi chiedo anche cosa noi genitori ed educatori possiamo fare affinché questo pensiero non si radichi nella sua mente. E poi cerco con lo sguardo attorno a me e vedo altri bambini. Quelli che negli occhi hanno un lampo scintillante, l’idea di compiere un gesto. E poi li vedo iniziare. Cominciano con un piccolo passo, magari cadono, si rialzano, ritentano, traballano ma non mollano e alla fine riescono a raggiungere ciò che hanno desiderato e in quell’istante, proprio in quell’istante il loro volto s’illumina di felicità meravigliosa! Il viso dice apertamente “ci sono riuscito! sono capace! posso farcela!”. La fatica che hanno impiegato per ottenere ciò che desideravano, le energie che hanno dovuto investire, le cadute e le lotte combattute hanno consentito loro, alla fine, di sentirsi euforici. La gratificazione del raggiungimento di un obiettivo in autonomia li ha resi consapevolmente forti, capaci quindi di comprendere che per ottenere un risultato bisogna investire tempo, energie. Questi bambini sanno che vi saranno delle cadute, che bisognerà trovare le forze per rialzarsi, che servirà tenere duro, riprovare e non mollare per giungere alla meta.Tutto questo insegna molto più di ciò che possiamo immaginare. E allora ripenso ai molti bambini rinunciatari che incontro nel mio lavoro e mi chiedo: perché noi genitori abbiamo così spesso la tendenza ad anticipare i loro bisogni? A sostituirci a loro? A non volere che vivano frustrazioni, cadute e paure? Perché siamo così spaventati dall’idea di lasciare che i nostri figli facciano fatica? Si, fatica! La fatica di far da soli, di sbagliare e riprovare; la fatica di aspettare, la fatica di accettare i propri limiti e perfino di accettare di sbagliare. Non è forse stato un atto di estrema fatica nascere? La fatica ha un senso profondo: è uno sforzo temporale, fisico e mentale che ci spinge verso qualche cosa di diverso da ciò che siamo ora. E’ lo sforzo che ci porta verso la soddisfazione personale di raggiungere un obiettivo. Una soddisfazione direttamente proporzionale allo sforzo che ho dovuto compiere.Tutto questo mi porta a pensare che forse dovremmo riscoprire il gusto della fatica: per noi genitori quella di lasciar agire i nostri figli in autonomia e per i nostri bambini quella di emergere, di divenire altro da noi perché ciò che saranno domani lo costruiscono da oggi, uno scalino alla volta….con molta fatica!

La responsabilità di essere responsabili!

Tra tutte i pensieri che mi sono passati per la testa questa sera, un concetto ha preso il sopravvento. LA RESPONSABILITA’. Che significa essere responsabili? Quando e come si diventa responsabili? Responsabili e ciò che ci aspettiamo che i nostri figli diventino quando saranno grandi. Già. Ma quando diventano grandi? Semplice! Dall’oggi al domani. Quando lo decidiamo noi. Si, perché, fino a ieri andava bene tutto, venivano accuditi in tutto, sostituiti in tutto e ogni loro gesto era giustificato. Poi, improvvisamente, da oggi, ALT! “Non sei sufficientemente responsabile” tuoniamo noi “sii responsabile!”...

Allora mi sono messa alla ricerca del tasto on/off per accendere la responsabilità nei miei figli ma non l’ho trovata. Niente, nulla, il vuoto, assente. I miei figli ne sono privi. Questo significa che se non vi è un tasto non vi è nemmeno un momento tassativo in cui le cose cambiano e allora come funziona? Ho riflettuto e sono giunta alla conclusione che il senso di responsabilità cresce con noi. La responsabilità è ciò che ci viene offerto dalle figure educative che ci circondano tramite il loro modo d’agire, è ciò che ci viene richiesto nei confronti del nostro prossimo, degli animali, della natura, degli oggetti attorno a noi, che siano essi di nostra proprietà o che siano un bene comune. La responsabilità è un valore umano che si apprende nella vita di tutti i giorni. Allora ripenso ai molti  bimbi con i quali condivido la giornata scolastica e alla loro capacità di interiorizzare i “grandi valori” che noi educatori cerchiamo di passare loro. Insegniamo loro che l'acqua è un bene preziosissimo al quali noi siamo talmente abituati da non attribuire alcun valore. Insegniamo loro a non darlo per scontato e i bambini lo imparano. Hanno imparato che viviamo grazie ad essa, tutti noi, uomini, animali, natura. E non solo! Hanno modificato il loro comportamento quando lavano le mani o i pennelli, quando bevono, quando versano l’acqua e lo fanno con parsimonia. Quando quella che hanno versato la finiscono perché l'acqua è un bene prezioso! Sono talmente fieri del loro apprendimento che, a casa, lo ripetono ai loro familiari!

Ecco, questo è ciò che io credo sia l’educare al senso di responsabilità. La responsabilità è la capacità di percepirci come parte di un tutto e, in quanto tali, al tutto collegati. Per questo sono fermamente convinta che non è mai troppo presto per insegnare il senso di responsabilità ai bambini poiché essi hanno una grande capacità di comprendere, a patto che gli venga spiegato e sopratutto mostrato con comportamenti coerenti. Per questo credo non sia per nulla educativo crescere i bambini fornendo loro risposte che demandano il senso di responsabilità di ciò che avviene nella loro vita sempre ad altri. Non sono gli oggetti brutti e cattivi che fanno male ad un bimbo piccolo quando inizia a camminare, inciampa e colpisce accidentalmente una sedia! Non sono sempre gli altri che insegnano al nostro bimbo le “brutte parole”! Non sono sempre gli altri che fanno o non fanno determinate cose e non sono gli altri ai quali noi genitori dobbiamo demandare sempre l'autorità per regolare i nostri figli.  Non è sempre il ginecologo, il pediatra, la maestra.... Ma siamo noi! Noi genitori ed educatori che ci assumiamo la responsabilità dei no e dei sì nei confronti dei nostri figli. Solo assumendoci le nostre responsabilità insegneremo loro a fare altrettanto, verso se stessi e verso il mondo di cui fanno parte.

Un vero tesoro!

Oggi mi sono presa un attimo tutto per me e ho deciso di sfogliare alcuni album fotografici della mia famiglia. Ho ritrovato alcune bellissime foto e a un certo punto mi sono fermata a osservare i miei figli insieme ai loro nonni...che meraviglia! Sono così diversi oggi! Certo nei loro volti si vedono le sfumature del tempo che li ha trasformati ma negli occhi hanno la stessa luce, come se lì il tempo si fosse azzerato. Quello è il tempo in cui i miei figli sono con i loro nonni.


Risultati immagini per nonni tesoroSuccede ogni volta che riusciamo ad andare a trovarli. Abitano lontano e con i ritmi di vita che abbiamo è difficile organizzarsi, ma quando ciò avviene i miei figli vivono un momento semplicemente magico.
Quando partiamo per andare a trovarli il viaggio è una sorta di trasformazione e già scendendo dalla macchina tutto cambia. I loro abbracci, i loro sorrisi:  è un mondo fatto dei miei figli e dei loro nonni, il loro mondo. Io resto in disparte, una spettatrice molto fortunata. Poterli osservare è un privilegio. Il loro è un mondo fatto di racconti, di storie sulla loro infanzia, di ricordi su come si sono conosciuti, di avventure nella natura, di animali veri o fantastici. Ogni gesto compiuto insieme assume una sfumatura particolare. Cambiano il tono delle loro voci, il ritmo dei discorsi, inventano piccoli riti tutti per loro, hanno piccoli grandi segreti. Così le passeggiate nel bosco, la caccia alle uova nel giardino a Pasqua, i regali che Babbo Natale lascia nella loro casa, tutto assume un colore diverso. Resto affascinata nel vedere come riescano ad essere complici delle piccole cose. Li vedo così uniti e mi reputo una persona estremamente fortunata! I nonni sono persone che hanno avuto la possibilità di rendersi conto di ciò che è stata la loro vita, nel bene e nel male, sanno ciò che hanno apprezzato o che avrebbero dovuto apprezzare ma che magari non hanno potuto, sanno per cosa è giusto combattere e per cosa non vale la pena e di tutta questa conoscenza hanno fatto tesoro decidendo di donarlo ai loro nipoti. Mi piace pensare che per ogni bimbo ci sia un nonno speciale, capace di rendere la quotidianità un po’ magica. Mi piace pensare che per ogni bimba ci sia una nonna a cui confidare piccoli segreti e da cui trovare rifugio quando se ne sente il bisogno. Mi piace guardare mia mamma parlare con i miei figli e avere una voglia incredibile di dialogare con loro, ma soprattutto mi piace vedere che lei ha la capacità di riuscirci.
Ecco, quando penso a questo credo davvero che vi sia la possibilità, in noi esseri umani, di creare se lo si desidera, un luogo educativo capace di far tesoro delle differenze di genere e di generazione trasformandole in esperienze uniche. A volte non importa la quantità di tempo che passiamo con le persone che amiamo ma la qualità, ed è la qualità che rende unici questi incontri.
  

Verso un mondo diverso

Mi torna alla mente un gesto che 38 anni fa fece mio padre. Avevamo appena finito di cenare e lui chiese a me e mio fratello maggiore di aiutarlo a riordinare la cucina così che la mamma potesse lavare i piatti. Alla sua richiesta mio fratello rispose “ma io sono un maschio!”. Allora mio padre lo guardò poi chiese a lui, a me e a mia madre di mettere le mani aperte le une vicino alle altre con i palmi rivolti verso l’alto e ci chiese di osservarli. Si rivolse a mio fratello e chiese “Vedi qualche cosa di diverso?”. Chiaramente, a parte le dimensione, differenze non ve ne erano. “Ecco!” disse “siamo una famiglia e tutti contribuiamo, maschi e femmine, grandi e piccoli, ognuno a seconda delle proprie capacità”.  Avevo solo sei anni ma non me lo sono più dimenticata, e nemmeno mio fratello! Ripenso a questo semplice episodio e credo che ci siano piccoli gesti quotidiani che fanno la differenza nell’educazione delle future generazioni. Così, quando sono a scuola e si avvicina l’ora della chiusura, ho pensato che c’è una frase che non funziona. Ai bimbi piccoli viene detto “ora ci prepariamo perché arrivano le mamme a prendervi”. Non può funzionare, perché non è la realtà. La vita reale è fatta di nonne, nonni, zie e zii, papà e mamme e anche di tate che vengono a prendere i bambini a scuola. Sono moltissime le persone che si prendono cura dei bambini prima e dopo la scuola e nominare solo le mamme significa insistere con uno stereotipo ormai superato della mamma che alle 16.00 prende il suo bambino a scuola. E vi dirò di più, penso che non faccia bene a nessuno. Penserete che sia una semplice frase! Io credo proprio di no! Sono fortemente convinta che siano proprio le piccole cose della quotidianità a formare le nostre personalità nel profondo e soprattutto in una fascia d’età come quella della scuola dell’infanzia. Così cerco sempre di porre molta attenzione quando parlo con i bambini sforzandomi di evitare gli stereotipi. Primo fra tutti lo stereotipo della famiglia patriarcale: la mamma che cucina, pulisce, lava e stira e il papà che va al lavoro. Mi impegno e modifico i miei racconti in “quando siete a casa e cucinate con il papà” oppure “mentre aiutate lo zio a stendere i panni e la mamma è al lavoro”. I bambini sono molto attenti a tutto ciò che ci circonda e noi possiamo, anzi dobbiamo, fare la differenza. Se non concepiamo noi per primi un mondo diverso nella nostra testa, in cui non vi siano ruoli definiti a priori e diversi per genere, difficilmente daremo ai bambini, futuri adulti, la possibilità di pensarsi in modo diverso, di pensare per ogni persona una variabile differente e non per questo sbagliata di viversi e vivere la propria vita. I tempi cambiano, il futuro ci anticipa e persino Barbie si è adeguata alla modernità e non sarà più una sola ma tante Barbie che impersoneranno etnie diverse, stili diversi, fisicità diverse e aggiungerei “era ora!”. Il futuro dei nostri bambini non è ancora scritto. Lasciate che siano loro a scriverlo pensandosi fra le mille variabili dell’esistenza possibili…

Chi impara da chi?

Attenzione! Ora vi spiego cosa dovete fare: girate qui, tagliate là, incollate su, e sistemate giù; e poi: pulite, tritate, mescolate, sistemate; infine: leggete, sottolineate, studiate, ricordate!
Non trovate che ci sia qualcosa di strano? Osservate bene i verbi. Sono tutti imperativi. E poi osservate con più attenzione. La domanda è: chi fa cosa? Ecco, la situazione è questa: io ordino tu esegui! Semplice. E’ una situazione di verbalizzazione di consegne con richiesta di esecuzione. Non prevede altro che un buon udito, una minima capacità di rielaborazione e infine una buona esecuzione. Ottimo quando si tratta di ricreare ricette, costruire un mobile dell’Ikea, dipingere una parete. Ma certo non può essere una strategia valida quando si tratta di relazioni educative. A mio parere questa non è una relazione educativa!

E qui scatta la riflessione: quando una relazione educativa è tale e quando produce apprendimento? Cosa fa la differenza? Cosa rende la quotidianità educativa davvero di qualità? La risposta che mi viene naturale è una sola: la relazione! Non vi è apprendimento con la A maiuscola se non all’interno di una relazione educativa emotivamente equilibrata. Ma questo cosa significa? Significa che i bambini, ma ancor di più gli adolescenti, ci scannerizzano. Ebbene sì! E’ proprio così! Capiscono perfettamente quanta voglia abbiamo di stare con loro, lì e in quel momento. Capiscono  quanto ci piace fare ciò che facciamo, quanto siamo disposti a metterci in gioco con loro e per loro, quanto di noi è presente nel momento in cui siamo con loro. Sanno tutto questo di noi, sia che noi siamo genitori, educatori o insegnanti. E sanno anche modificare i loro comportamenti in funzione a ciò che hanno scannerizzato rispondendo all’equazione semplice ma efficace “tu non credi in me e nel tuo compito ergo io non credo in te e in quello che mi dici”. Tutto questo si traduce in mancanza di fiducia e senza fiducia non si costruisce proprio nulla. E allora a noi cosa è richiesto? Di provarci con tutti noi stessi, di far sentire che si ha voglia di fare insieme, senza sostituirsi. Di esserci, a volte semplicemente stando al loro fianco ed ascoltandoli, a volte dando spiegazioni e altre anche qualche rimprovero. Allora ci staranno le sgridate, le risate e tutte le sfumature che rientrano in una relazione nella quale siamo un NOI e non un TU e IO. In questo modo, alla fine della nostra giornata, sarà più semplice rispondere alla domanda “ma oggi i miei ragazzi cosa hanno imparato da me?”. Ma ancor più gratificante sarà rispondere alla più profonda “Ma oggi io cosa ho imparato dai miei ragazzi?”

giovedì 4 febbraio 2016

Amica Tristezza

Ieri ha piovuto! E ha piovuto proprio parecchio! Era da tanto che non pioveva più. Certo, non è che io ami particolarmente la pioggia ma, quando piove e io ho la possibilità di fermarmi un attimo, di rallentare i ritmi frenetici e di guardare fuori dalla finestra, devo dire che la pioggia stimola moltissimo il mio pensiero. Guardo la pioggia e penso alla tristezza. Penso alle numerose volte che mi sono incantata guardando la pioggia fuori dal finestrino di un autobus, tornando da scuola da adolescente, e a quanto riuscivo ad abbandonarmi alla tristezza. Una tristezza catartica, misteriosa, nostalgica, introspettiva. Quella tristezza era malinconica, accompagnata da qualche musica lenta e dalle parole sconosciute che le facevano da colonna sonora. Ricordo quei momenti come profondamente meditativi. Ricordo che pensavo a moltissime cose! Pensavo agli amici, pensavo alla mia vita, ai miei piccoli grandi problemi quotidiani. Pensavo all’amore. Pensavo al silenzio e alla solitudine. Ai miei sentimenti e a ciò che provavo. Pensavo a me! Qualche volta scendeva una lacrima e una sensazione cupa mi accompagnava per tutta la giornata. Ripensando a quei momenti sono sempre più convinta che siano stati ottimi compagni di crescita. Anche così sono potuta diventare quella che sono. Due facce di una stessa medaglia. Gioia e Tristezza, come le protagoniste di Inside Out. E così sono anche oggi. Con sfumature diverse, profondità diverse, ma ancora così. Ho bisogno dei miei momenti bui per poter riemergere forte e determinata verso la luce. Ho bisogno di entrare in me stessa per scavare e ritrovarmi. Penso a questo mio modo di essere e alla profondità in cui riesco a ritrovarmi e poi mi guardo intorno e vedo quanta brama di felicità obbligatoria ci sia in moltissime persone. Quanta ricerca della felicità per sempre e a tutti costi. Quanto desiderio di mostrarsi giovani, sorridenti e perfetti ci sia. Quanta paura dell'imperfezione, del mascara sbavato, del capello fuori posto. Quanta preoccupazione per quel che che gli altri credono che io sia se mi vedono triste oggi. Poi penso a quanta ansia genitoriale c'è di fronte alla lacrima di tristezza o di frustrazione di un bambino. Quanta paura ci sia nell’affrontare la malinconia dei propri figli adolescenti. Quanta difficoltà ad accoglierli come persone a tutto tondo, ricchi di altalene emotive e paure e tristezze così come di gioie ed euforie. 
Perché abbiamo così paura dei grigi emotivi? Fanno parte di noi. Fanno parte della nostra costruzione personale. Vivere la tristezza con le sue mille sfaccettature, ascoltarla, affrontarla, capirla, riconoscerla, mostrarla, ci rende vivi. Quando siamo tristi gli altri possono aiutarci e sostenerci. Quando un bambino piange la sua mamma lo coccola, lo consola, gli mostra che dopo la tristezza si può tornare a sorridere. Possiamo insegnare ai nostri figli a non avere paura della tristezza, ad accoglierla e ad accogliere l’aiuto. Possiamo dire loro che si può piangere e essere tristi, che non è sbagliato, che poi si può ritornare a ridere. Magari proprio di ciò che ci ha fatto sentire tristi. A nostra figlia possiamo offrire una grande coppa di gelato da condividere chiacchierando se un fidanzatino l’avrà lasciata o un’amica l’avrà delusa. Possiamo abbracciarla e consolarla. Al nostro bambino possiamo raccontare una storia della felicità dopo che avremo asciugato e accolto le sue lacrime per il litigio con un amico.
Io temo molto chi non piange mai, chi non mostra mai un dubbio, chi non vacilla, chi non si ferma e non dice mai “oggi mi sento giù”. Esprimere i propri sentimenti di malinconia non significa essere pessimisti ma accettare le emozioni per quelle che sono. Si può essere ottimisti pur accettando la malinconia. Si può dire “oggi mi sento giù, domani sarà un altro giorno” avendo la precisa consapevolezza che passerà. Rifuggire la malinconia, cercare a tutti i costi di nasconderla, ricacciarla in un angolo remoto e chiedere ai nostri figli di farlo è estremamente pericoloso perché un giorno tutta quella emozione potrebbe risalire con estrema violenza e travolgerci con un onda emotiva che non saremo in grado di affrontare. Potrebbe mutare forma e divenire rabbia, odio, fobia. Potrebbe inquinare la nostra vita di nascosto trasformandosi in depressione. Ma se la accogliamo così com’è, così come viene, libera di esprimersi in un emozione che diventa lacrima, in una giornata passata a guardare la pioggia persi nei propri pensieri, allora così come è arrivata se ne andrà. Se ci lasciamo consolare dagli affetti, accettiamo una spalla su cui piangere, guardiamo fuori dal finestrino del nostro autobus, allora torneremo presto a sorridere perché sappiamo che, come nella battuta di un celebre film: “non può piovere per sempre”.


lunedì 1 febbraio 2016

Piccoli lettori crescono

Io amo leggere! Chi mi conosce lo sa molto bene. Amo annusare le pagine dei libri, amo entrare in libreria e aprire i libri leggendone pagine a caso per vedere se mi ispirano, amo la polvere sui libri di casa mia, amo guardare i colori della mia libreria, amo entrare nelle storie e vivere avventure meravigliose, viaggi nel tempo, storie d’amore. Amo essere un’avventuriera, una nomade del deserto, una fata della mezzanotte, un dama rapita dai pirati, una mamma incasinata, una donna sedotta da un cattivo….amo vivere queste mille vite e amo viverle contemporaneamente. L’amore per la lettura e per i libri mi accompagna da tantissimi anni. E insieme all’amore per la lettura è nato in me quello per la scrittura. Amo raccontare e raccontarmi. Per questo mi sento molto dispiaciuta quando incontro bambini e ragazzi che non sono mai riusciti ad avvicinarsi a un libro provando nel cuore il desiderio di fare nuove scoperte e nuovi viaggi. Soffro quando li vedo soffrire perché costretti a leggere e soffro quando li vedo inesorabilmente allontanarsi dalla lettura. Soffro ma capisco perché lo fanno. Capisco che nessuna scintilla di curiosità è mai comparsa in loro. Capisco che la velocità con cui si fruisce oggi delle mille applicazioni digitali li renda impazienti di fronte all’attesa che un libro richiede. Il libro richiede tempo, dedizione, pazienza e immaginazione. Oggi ai nostri figli resta ben poco da immaginare. E’ tutto lì. Veloce, rapido, fatto di immagini, video, app, clip…tutto immediato, tutto subitaneo.

La lettura non è così. La lettura è dolce, delicata, seducente, ritmata, scandita, curiosa, sospesa e paziente. L’arte della lettura è l’arte dell’attesa, l’arte dell’ascolto, l’arte dell’immaginazione. Molte mamme si lamentano perché i propri figli non leggono nulla o sbuffano quando devono leggere. Molti insegnanti si trovano di fronte muri di gomma quando chiedono ai bambini di leggere. Allora io penso. Ascolto. Osservo. E vedo davvero poco trasporto da parte degli adulti che tentano di educare i bambini alla lettura. Educare un bimbo alla lettura non è costringerlo a leggere. Educarlo alla lettura è raccontare per lui storie meravigliose ogni sera, è leggere per lui, è sfogliare libri in biblioteca, in libreria, a casa insieme a lui. Educare un bambino a leggere è fargli vivere ogni volta una magica e coinvolgente avventura. E’ fargli toccare, annusare, ascoltare, raccontare un libro. E’ lasciarlo in sospeso la sera dicendogli “domani andiamo avanti da qui, porta pazienza”. E’ mostrargli le immagini di un libro illustrato e chiedergli di raccontare con voi una storia nuova ogni sera, con la sua fantasia. E’ farlo emozionare. E’ farlo sognare. La lettura è emozione. La lettura poi è anche il diritto di non leggere, di lasciare un libro a metà perché lo troviamo noioso, di cambiare genere. La lettura è ricerca. Allora non gettiamo la spugna. Impariamo ad amare e a far amare la lettura ai nostri bambini perché leggere è dedicare tempo alla loro fantasia, è dar loro la possibilità di essere liberi, è dar loro la possibilità di vedere oltre. La lettura è dar loro amore!