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domenica 10 gennaio 2016

Peter Pan non è mio padre!

Risultati immagini per peter panIn questa domenica pomeriggio un pò uggiosa, passata per la maggior parte del tempo a stirare, arriva finalmente il momento in cui posso sedermi davanti al mio pc e lasciar scorrere liberamente i miei pensieri riflettendo sul difficile lavoro dell’educare. Mi torna subito alla memoria  un divertente aneddoto accaduto in una delle mattine passate a scuola insieme a F. 
Stavamo parlando di una ragazzina che a lui piace molto e mi stava raccontando tutte le sue fatiche di preadolescente alle prese con i primi amori. Parlava e raccontava e poi ascoltava incuriosito e anche un po’ divertito le mie parole. Sorridendo lo guardo e dico “dai retta a me che sono vecchia”. Lui si mette a ridere e mi dice “ma no, non sei vecchia, hai solo il pentagramma sulla fronte”. Così insieme scoppiamo in una sonora risata coinvolgendo una mia collega che ci guarda e si rivolge a F. dicendogli “è bello avere un’amica con cui parlare vero?”. Lui si fa serio e risponde “ma lei non è la mia amica, non mi racconta i suoi segreti e non piange. Lei è un’adulta! Però mi piace parlare con lei perché mi ascolta e mi consiglia”. L’ho guardato e fiera di lui ho pensato “Quanta saggezza in queste parole”.
Perché vi ho raccontato questo aneddoto? Perché oggi vorrei sfatare il secondo mito legato al dialogo coi figli: dialogare coi figli non significa essere i loro migliori amici. Ecco, l’ho detto! E non odiatemi per averlo detto! Sono estremamente convinta che questo sia un altro dei miti moderni della relazione genitori-figli. Sembra che in molti credano che dialogare coi figli è possibile solo se ci si comporta come loro, solo se si usa lo stesso linguaggio, solo se si fanno le medesime esperienze. Dialogare non è necessariamente questo. In verità può esistere e deve esistere un tipo di dialogo intergenerazionale sano e costruttivo. Un dialogo che con il tempo cresce, muta, si modifica. Dialogare con un figlio piccolo non è come dialogare con un figlio adolescente, dialogare con una figlia non è come dialogare con un figlio, dialogare a trent’anni non è come dialogare a cinquanta. Ma una cosa non cambia. Noi siamo i genitori e loro sono i figli. E non intendo dire che questa sia una scala gerarchica dove qualcuno è più importante di qualcun altro. Il valore umano di ognuno di noi è identico, sia che si abbiano due anni sia che se ne abbiano trenta, sia che siamo maschi sia che siamo femmine e via di seguito per tutte le variabili possibili. Sono le esperienze umane ad essere diverse. La strada percorsa, la vita trascorsa, gli apprendimenti fatti. Essere genitore è mettere a disposizione dei  propri figli tutto questo bagaglio di esperienze. E’ introdurre cambiamenti attraverso la condivisione. E quale miglior strumento se non il dialogo? Ma le parole che si usano, le frasi che si dicono, hanno un’importanza fondamentale. Nelle nostre parole c’è esperienza che si trasmette e che si fissa nella mente dei nostri figli. Nel dialogo quotidiano c’è vita che passa di padre in figlio. Ma la relazione che instauriamo con loro rimarrà necessariamente asimmetrica. Il nostro ruolo di guida, di aiuto, di ascolto, di contenimento, di accoglienza, di educazione, sarà sempre un ruolo da educatore ad educando fino a quando i nostri figli  non saranno in grado di andare nel mondo da soli. E in tutto questo tempo, in questa relazione, sarà importante ricordare sempre che la fiducia si costruisce dando fiducia, che l’ascolto si educa dando ascolto. Ma noi rimarremo sempre i genitori dei nostri figli. Io rimarrò la donna che è investita della responsabilità di guidarli e sostenerli e non quella che deve essere sostenuta da loro. Nella relazione fra migliori amici l’uno sostiene l’altro in modo biunivoco perché entrambi si è in grado di sostenere la sofferenza dell’altro, la gioia dell’altro, l’apatia dell’altro a ritmi alterni. Nella relazione genitori-figli, un figlio che sta crescendo non ha le strutture emotive adeguate per accogliere i nostri “segreti”. Certamente un figlio può comprendere che siamo umani, che abbiamo debolezze e fatiche, che commettiamo errori. Questo può comprenderlo. E non solo! Abbiamo il dovere di spiegarglielo perché prima o poi commetteremo errori e lui se ne accorgerà e se ci avrà mitizzati allora perderà la fiducia. Ma in quanto figlio (soprattutto se piccolo) non può e non deve sostenerci nei nostri momenti di crisi, non può e non deve farsi carico delle nostre paure terrorizzanti, non può e non deve asciugare le nostre lacrime di dolore. Questo ruolo spetta a qualcun altro e soprattutto spetta a noi nei suoi confronti.

Poi, un giorno, quando avremo insegnato loro a essere uomini e donne completi, emotivamente stabili, capaci di accogliere l’altro, ci accorgeremo che saranno in grado di fare tutto questo coi loro stessi figli e forse, allora, anche con i loro anziani genitori. Ma fino ad allora facciamoci carico delle nostre responsabilità e smettiamola di fare gli eterni Peter Pan emotivi.

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